sabato 28 maggio 2011

Mostri, alieni e libri che non finiscono


Per non parlare in modo inutile e approssimativo solo di cinema, inizio a parlare in modo inutile e approssimativo anche di libri. E per non complicarmi troppo le cose ho deciso che questi miei commenti saranno brevi, molto brevi...
Ci tengo a precisare che non sono assolutamente in grado di criticare un libro (o un film) in modo oggettivo e che queste righe vanno prese con la massima leggerezza, proprio come quelle in cui scrivo di cinema.


La scomparsa dell'Erebus, Dan Simmons, 787 pag.
Nel 1845, due velieri salpano dall'Inghilterra in cerca del Passaggio a Nordovest e rimangono bloccati per tre inverni nel ghiaccio artico. All'equipaggio di una delle due navi si aggiungono una misteriosa esquimese muta che incomincia ad essere trattata come una specie di dea, e un grande mostro bianco che semina il panico. Intanto, il sempre sbronzo capitano della spedizione decide che si suiciderà una volta finita l'ultima delle tante bottiglie di whiskey che si è portato dietro.
Il libro va avanti fra notti di sangue e terrore, incubi, strane visioni e ammutinamenti. Il freddo terribile, il buio costante e la disturbante sensazione di trovarsi sempre più vicini alla fine sono elementi forti e ben gestiti, e malgrado Simmons insista più sulle atmosfere che sugli avvenimenti, il ritmo non ne risente in modo particolare.


Il passaggio, Justin Cronin, 883 pag.
Una giovane ragazzina viene rapita dal governo e usata per un esperimento scientifico. Ovviamente andrà tutto nel peggiore dei modi, e dal bunker segreto in cui si svolgono gli esperimenti riusciranno a sfuggire dodici fumidi - strani esseri incazzati mezzo zombies e mezzo vampiri - che in breve tempo stravolgono l'equilibrio (chiamiamolo così) mondiale, contagiando milioni di persone.
L'ho preso quasi per caso. Cercavo un libro fantahorror post-apocalittico e ho trovato questo. Tranne che in qualche capitolo non molto convincente, devo dire che mi sono abbastanza divertito. Alcuni personaggi sono fin troppo stereotipati, ma le quasi novecento pagine scorrono veloci e il livello generale è più che accettabile. Palesemente scritto per diventare un film, tanto che alla fine Cronin già ringrazia Ridley Scott e la sua casa di produzione.
Purtroppo però, avvicinandosi alla fine ci si rende conto che le pagine restanti probabilmente non basteranno per portare la vicenda a una conclusione degna, e inizia a sorgere un terribile dubbio: che sia il primo di una trilogia? Ma no, mi sono detto, gli stronzi lo avrebbero scritto da qualche parte, chessò, nella quarta, nel riassunto, in copertina... E invece niente.
L'ho poi scoperto su internet, che è il primo di una trilogia, dopo averlo (non) finito.
L'ultimo capitolo è previsto per il 2014.


Contagio, Scott Sigler, 445 pag.
Lo so che leggendo certi libri dovrei evitare di pensare ad alcune mie idee e convinzioni e concentrarmi unicamente sulla vicenda. Ma il fatto che alla fine del romanzo l'autore dedichi parte dei ringraziamenti “al maggiore Thomas Austin, del Genio dell'esercito americano, e al sergente Donald Woolridge dell'esercito americano, che si sono presi la briga di accertarsi che le mie scene militari riflettessero accuratamente la natura delle donne e degli uomini coraggiosi che costituiscono il motivo principale per cui ho un Paese da amare”, purtroppo, si nota anche durante la narrazione. È comunque possibile godersi le vicende di Perry, giovane impiegato infettato da un terribile “seme” proveniente dallo spazio, in grado di modificargli non solo l'organismo ma anche il modo di agire e di pensare. Scoprirà che ce ne sono altri come lui e che dietro tutto quello che sta succedendo si nasconde un inquietante piano alieno.
La scrittura non mi è piaciuta più di tanto e la storia parte molto lentamente, ma le atmosfere fantahorror (sangue in abbondanza) della seconda metà sono tutto sommato efficaci e coinvolgenti.
Peccato per i personaggi odiosi poco o nulla approfonditi e per certi dialoghi imbarazzanti:

Malcolm rise. “Tu, vomitare? Figurati! Dimmi, hai ancora intenzione di sbatterti quella pollastrella del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive? Come si chiama, Montana?”
“Montoya”
“Giusto, Montoya” disse Mal. “Data la piega che sta prendendo questo caso, la vedremo parecchio. È piuttosto sexy per essere una pollastra attempata.”


Va be'...

Il vero problema del libro comunque è il fatto che è il primo di una serie che prevedo infinita (e anche in questo caso l'ho scoperto dopo). La narrazione, quindi, si interrompe di colpo.

mercoledì 25 maggio 2011

Distruggete DC59 - Da base spaziale ad Hong Kong


Kyuketsuki Gokemidoro
Di Hajime Sato, 1968 (Giappone)
Con Teruo Yoshida, Tomomi Sato, Eizo Kitamura
Scritto da Kyuzo Kobayashi, Susumu Takaku
Montaggio di Akimitsu Terada
Fotografia di Shizuo Hirase
Musiche di Shunsuke Kikuchi
Durata: 84 min.

Un dirottatore prende possesso di un aereo di linea giapponese. Passeggeri e piloti non hanno nemmeno il tempo di spaventarsi che una strana luce arancione si dirige verso l'aereo, gli passa sopra facendo impazzire gli strumenti e incendiando un motore e poi sparisce nel nulla. Costretti a un atteraggio di fortuna in mezzo alle montagne, i sopravvissuti incominciano a litigare quando si rendono conto che nessuno verrà a salvarli. Nel frattempo il dirottatore, che tutti credevano morto, si risveglia, rapisce la hostess e scappa. Ma la sua fuga non dura molto, perché uno strano disco volante (la luce arancione di prima) lo ipnotizza, gli taglia la fronte inserendogli in testa una strana sostanza argentata (l'alieno? Non l'ho capito...) e lo trasforma in un vampiro assetato di sangue. Ma gli alieni invasori non si accontentano di infettare qualche persona a caso e sognano in grande.
Premesse fantastiche per un film sicuramente non indimenticabile ma che, nel suo piccolo, diverte e intrattiene il giusto.
Ci sono anche due o tre momenti culto, come quando l'alieno, con un inquietante vocione cavernoso, si esprime attraverso il corpo di una passeggera posseduta annunciando l'intenzione della propria razza di invadere la Terra. Bella anche tutta la scena che precede l'atterraggio di fortuna, con l'aereo che vola in un cielo rosso acceso suggestivo e apocalittico.
Il messaggio pacifista e antimilitarista del film è chiaro (ci sono critiche esplicite alla guerra in Vietnam, oltre che a governi, scienziati, politici e via dicendo...), e in pratica lo dice anche l'alieno Gokemidoro: “vi invadiamo perché avete reso il vostro pianeta un enorme campo di battaglia, rendendoci il compito ancora più facile.” Considerando che apprezzo i messaggi antimilitaristi anche quando sono banali e poco approfonditi, questo è un altro punto a favore. Da vedere, direi.
Inspiegabile la traduzione italiana del titolo.

sabato 21 maggio 2011

Illégal


Di Olivier Masset-Depasse, 2010 (Belgio, Lussemburgo, Francia)
Con Anne Coesens, Alexandre Gontcharov, Natalia Belokonskaya, Olga Zhdanova
Scritto da Olivier Masset-Depasse
Montaggio di Damien Keyeux
Fotografia di Tommaso Fiorilli
Musiche di André Dziezuk, Marc Mergen
Durata: 90 min.

Tania e suo figlio Ivan vivono in Belgio da ormai parecchi anni. Immigrati clandestinamente dalla Russia, devono convivere con la paura di essere sottoposti a un controllo d'identità da parte delle forze dell'ordine. Controllo che puntualmente arriva dopo pochi minuti di film. Ivan riesce a scappare, ma i due poliziotti (che evidentemente non avevano nulla di meglio da fare che chiedere i documenti a madre e figlio di ritorno da scuola con tanto di zaino in spalla) riescono a catturare Tania e a portarla in un centro di accoglienza. Convinta di doverci restare “solo” per cinque mesi, entra in crisi quando scopre che potrebbero espellerla dal paese con la forza.
In un mondo fatto di barriere, confini, leggi e discriminazioni, non ci si dovrebbe stupire che accadano cose come quelle che Tania, le sue nuove compagne nel centro e altre centinaia di migliaia di persone sono costrette a subire. Eppure si resta a bocca aperta nel notare come tutta questa burocrazia delle vite, questo dover essere forzatamente inseriti in un sistema che pretende tutto senza poi dare nulla, continui ad esistere e ad essere considerato giusto o ben che vada inevitabile. È un'amministrazione violenta dell'esistenza che in un certo senso coinvolge tutti, non solo chi la subisce in modo così diretto e violento come gli immigrati clandestini in Europa.
Così come il potere non degrada solamente chi lo subisce, ma anche chi lo esercita: la guardia gentile e comprensiva che nel vedere il corpo di una ragazza impiccatasi nelle docce decide finalmente di andarsene togliendosi la divisa ne è la dimostrazione perfetta. Un altro tipo di degrado è invece quello che colpisce i poliziotti che per sfogare lo stress maltrattano e picchiano i detenuti (uomini, donne... cambia poco). Inutile commentare...
Detto questo, il film è da vedere per le tematiche e il modo abbastanza diretto in cui vengono presentate, ma non è certo memorabile. Per il regista è fin troppo facile portare lo spettatore dalla parte di Tania, mostrandone sofferenza fisica e psicologica, ma in certi casi è come se si accontentasse di questo, senza andare oltre. Probabilmente non ne ha sentito il bisogno e la sua è stata una scelta ponderata, ma a mio parere il risultato finale ne risente. Ha comunque il pregio di far riflettere, e alcune scene sono particolarmente riuscite.
Una delle più significative si trova forse verso l'inizio del film, quando Tania si rifiuta di fornire le proprie generalità e le viene quindi consegnata una carta con un semplice numero identificativo con cui poter circolare nel centro di accoglienza. La guardia che si occupa del suo ingresso allora le chiede se non sarebbe più logico e carino farsi chiamare con un nome. Lei non risponde, prende il suo nuovo documento, e se ne va. È una scena importante che mi ha quasi fatto ridere per la sua assurdità: il problema non è tanto essere chiamati per nome piuttosto che con un numero, il problema nasce quando l'unico modo per esistere è quello di possedere un documento o un foglio di carta che dia il permesso di circolare liberamente. In una società del genere non mi pare ci sia poi così tanta differenza fra un nome e un numero, se l'unico scopo è quello di schedare e controllare.


domenica 8 maggio 2011

Occhi senza volto


Les yeux sans visage
Di Georges Franju, 1960 (Francia, Italia)
Con Pierre Brasseur, Alida Valli, Edith Scob, Juliette Mayniel
Scritto da Claude Sautet, Jean Redon, Pierre Boileau, Thomas Narcejac, tratto dal romanzo di Jean Redon
Montaggio di Gilbert Natot
Fotografia di Eugen Schüfftan
Musiche di Maurice Jarre
Durata: 88 min.

Un rinomato chirurgo è convinto di poter restituire un volto alla figlia Christiane, rimasta sfigurata in un incidente stradale, ora costretta a non uscire di casa e ad indossare una maschera. Per i tentativi di trapianto rapisce con l'aiuto della sua segretaria giovani ragazze le cui sembianze si avvicinino a quelle della figlia. Qualcosa però continua ad andare storto, e gli interventi non hanno successo.
Film molto particolare e intenso, che parte quasi timidamente e diventa pian piano sempre più macabro e carico di tensione. Merito sia della regia di un esordiente Franju che delle penne di Boileau e Narcejac, responsabili di capolavori come I Diabolici di Clouzot e La donna che visse due volte di Hitchcock. La vicenda è costruita attorno alla figura diabolica del chirurgo pazzo, personaggio tormentato dai sensi di colpa per essere il responsabile dell'incidente che ha coinvolto la figlia e disposto a tutto pur di restituirle la bellezza e la voglia di vivere. Dottore affabile e premuroso di giorno, crudele carnefice di notte. Anche Christiane, che vediamo quasi sempre coperta da una maschera, è divisa fra il desiderio perverso di poter finalmente ottenere una nuova pelle per la sua faccia e un'innocente bontà a cui non ha ancora saputo rinunciare. Ogni personaggio sembra intrappolato, costretto a subire senza possibilità di scegliere o ribellarsi.
Strano a dirsi, ma del film colpiscono soprattutto le atmosfere eleganti e gotiche, in contrasto con le poche scene cruente. Fantastica quella del trapianto, che John Woo deve aver visto e rivisto svariate volte prima di girare il suo Face/Off. Fa effetto ancora oggi per il suo realismo, nonostante il cinema slasher ci abbia abituati a molto peggio. Ma la parte più riuscita è forse il finale folle e catartico, giusta e inevitabile conclusione di un film difficile da dimenticare.