sabato 19 maggio 2012

Visioni



Non pubblico niente da un mese e mezzo e ultimamente ho pure smesso di lasciare commenti in giro. Magari seguo, ma in silenzio. Tutto ciò non è frutto di una scelta precisa ma piuttosto di una serie di circostanze di cui immagino non freghi niente a nessuno. Finirà.
Ad ogni modo, mi è venuta voglia di scrivere qualcosa per evitare che PPS diventi una specie di blog fantasma e per salutare quei pochi che magari passano ancora di qui. Allora, siccome non ho intenzione di concentrarmi su un unico film e di qualcosa dovrò pur parlare, farò una specie di elenco delle visioni che ultimamente mi hanno colpito di più, sia in positivo che in negativo.
Se volete, potete leggere ascoltando questa canzone:



Ho visto The Artist, e sarà che io di cinema muto ne ho visto pochissimo e a farmi piacere questo mi sarei quasi sentito in colpa, oppure che i cani ammaestrati per far ridere a comando mi fanno perdere quel poco di fiducia nell'essere umano che ancora mi è rimasta, o ancora che essere figa e fare le boccacce non vuol dire saper recitare, però ecco, fondamentalmente mi sono sentito preso per il culo per un'ora e quaranta.
Un altro film brutto è Chronicle, che è piaciuto a tutti ma che personalmente ho trovato abbastanza scadente. La storia la sapete: ci sono due studenti figaccioni e uno sfigato che di colpo si ritrovano con dei superpoteri. All'inizio va tutto bene ma poi, negli ultimi sei minuti di film, la situazione degenera. Non succede quasi nulla, quel poco che succede non è interessante e i tre ggiovani sono uno più fastidioso dell'altro. Peccato.
Poi c'è The Grey, con Liam Neeson nella parte di se stesso che si ritrova a fronteggiare centinaia di lupi affamati che sembrano avercela proprio con lui. La scena notturna con gli occhi dei lupi che si accendono (e poi si spengono) in sequenza come lampadine mi ha dato voglia di interrompere tutto, ma sfortunatamente sono comunque arrivato alla fine. Il regista, per la cronaca, è lo stesso dell'imbarazzante A-Team. Evitatelo, davvero.
Ho visto molti altri film poco seri che non mi son piaciuti, ma non meritano particolari approfondimenti, a parte forse The Awakening, horror gotico col classico doppio twist finale che parte bene ma si perde in fretta. Molto meglio The Woman in Black, di cui se non altro ho gradito la fotografia. E a proposito di Harry Potter, siccome i primi li avevo visti tutti e non concludere la saga non avrebbe avuto molto senso, ultimamente mi sono procurato anche gli ultimi capitoli. Niente di che, sia chiaro, ma almeno non mi sono annoiato. Mi ha un po' deluso il finale, ma forse è perché dell'universo di Harry Potter c'ho capito poco.

SPOILER: insomma, fa un po' di tristezza vedere il maghetto invecchiato in giacca e cravatta, presumibilmente con una vita normale e un lavoro noioso, accompagnare il figlio alla scuola di maghi e poi non andare con lui. Cioè, hai la possibilità di vivere in un mondo magico pieno di creature fantastiche, e te ne torni a Londra per metter su famiglia? Mah...
FINE SPOILER

Per concludere le brutte visioni, merita una citazione anche questo che... be', sì, sarà anche povero, avrà pure tutti i difetti che volete, ma insomma, mi aspettavo di peggio.
Ora, viaggi nel tempo: c'è Primer, incasinatissimo e tutto sommato abbastanza inquietante film che gli appassionati dell'argomento devono assolutamente vedere. Stesso discorso per The Girl Who Leapt Through Time, cartone animato giapponese romantico e avvincente che consiglierei più o meno a chiunque. Infine, dopo anni e anni, ho recuperato Los cronocrímenes, che però mi ha enormemente deluso.
Sempre in ambito fantascientifico, ho visto The Divide che, non me l'aspettavo, mi è piaciuto parecchio. Lo attendevo da molto, soprattutto per via della trama: in pratica il film inizia con un'esplosione nucleare causata da non sapremo mai cosa o chi, e un gruppo di persone si ritrova chiuso nel rifugio sotterraneo di uno che c'aveva visto lungo e che si era già organizzato per poter sopravvivere lontano dalla superficie. Il problema è che sono in tanti e già dopo poche ore salteranno fuori le prime incomprensioni, che presto si tramuteranno in ricatti e violenza. C'è qualche calo qua e là, ma il voto di imdb non gli rende giustizia, probabilmente a causa della pesantezza di alcune scene. Bellissimi gli ultimi dieci minuti.
Un altro horror carino che intrattiene il giusto è Fritt Vilt, visto quasi per caso qualche tempo fa.



Mi viene da segnalare anche questo Killer Klowns From Outer Space. Vittima di un inspiegabile 5.7 su imdb, è esattamente il film che vorreste trovarvi davanti se aveste voglia di una storia con perfidi ma buffi clown alieni che invadono la Terra. Nulla fuori posto, nessuna pretesa, sangue, risate... quasi perfetto.
Ho rivisto pure Contact, che mi ricordavo bello e che questa volta, lo ammetto, mi ha pure commosso.
Poi mi è capitato di vedere Breakdown, e allora mi sono messo a recuperare tutti i thriller on the road che sono riuscito a trovare: The Hitcher (finora avevo visto solo lo squallidissimo remake), Joy Ride, Highwaymen, Transit... A parte quest'ultimo sono tutti abbastanza carini, anzi, The Hitcher è proprio bello, a parte la scena poco credibile in cui il protagonista si fa arrestare praticamente senza motivo. Mi manca ancora Roadgames, che tra l'altro è quello che avevo in lista d'attesa da più tempo... Un altro ottimo thriller on the road (ma questa volta coi treni) che ho visto ultimamente è Transsiberian, che per quanto mi riguarda è il migliore di Anderson, insieme forse a L'uomo senza sonno. Consigliatissimo.


Questo post sta diventando sempre più disordinato e privo di senso, quindi concludo parlando di altri due film che mi sono rimasti particolarmente impressi. Il primo è Nothing Personal, opera prima della Antoniak. È la storia di Anne che svuota il suo appartamento e lascia mobili e oggetti sul marciapiede davanti a casa. Dalla finestra guarda poi i passanti che rovistano fra la sua roba portandosi via ciò che più gradiscono: poltrone, lampade e suppellettili vari. A legarla ad un passato che intende chiaramente lasciarsi alle spalle, le rimane solo l'anello di un matrimonio finito male e di cui non sapremo mai nulla. Buttato via anche quello, Anne può finalmente partire zaino in spalla. Fra la diffidenza di una famigliola felice che si rifiuta di darle un passaggio in macchina e qualche incomprensione varia, arriva in Irlanda nella selvaggia regione di Connemara. Dopo qualche notte passata a dormire in tenda in mezzo alla natura, trova la casa di Martin, un vedovo che ha perso la moglie presumibilmente da poco. I due si conoscono e fanno un accordo: lei lavorerà per lui in cambio di vitto e alloggio, ma non dovranno mai farsi domande personali sul loro passato.
Si inzia direttamente con la scena dei mobili in strada, senza considerare le ragioni che hanno spinto Anne ad una tale decisione, e non si perde tempo a raccontare il passato dei due protagonisti nemmeno quando, dopo una ventina di minuti di film, Anne e Martin si conoscono. Alcuni dettagli sono suggeriti, ma niente più. Tutto quello che serve sapere è lì, e del “perché questo” e “come mai quello” la Antoniak, fortunatamente, se ne frega. L'aspetto che più le interessa è la continua ricerca di solitudine da parte dei due personaggi, contenti di essersi trovati ma comunque desiderosi di conservare ciascuno la propria intimità.

Il secondo è Il raggio verde, di Rohmer, che non avevo ancora visto e che mi è sembrato quasi un capolavoro. Parla di Delphine, della sua solitudine e dell'incapacità di avere rapporti normali con le persone. È meraviglioso, non dico altro.

venerdì 30 marzo 2012

Polisse




Di Maïwenn, 2011 (Francia), 127 min.
Con Karin Viard, Joey Starr, Marina Foïs, Maïwenn, Riccardo Scamarcio, Emmanuelle Bercot
Scritto da Maïwenn, Emmanuelle Bercot

La Brigade de Protection des Mineurs si occupa delle violenze sui minori, di casi di pedofilia e anche di alcuni piccoli reati commessi da minorenni. Maïwenn, adottando un classico stile documentaristico, prova a farci un film.
La pellicola nel suo insieme appare però falsa, pretenziosa ed esagerata, non tanto nelle dure descrizioni di quello che le vittime sono costrette a sopportare, quanto nel cattivo gusto e nella retorica di una sceneggiatura e di una regia basate esclusivamente sulla costante ricerca di un realismo mai raggiunto e sulla voglia irrefrenabile di scandalizzare ad ogni costo lo spettatore.

Le intenzioni di Maïwenn erano di restare imparziale e di evitare di descrivere degli eroi, ma bastano una decina di minuti per rendersi conto che non sarà così: viviamo in un mondo di pedofili e meno male che ci pensa la BPM, i cui agenti non hanno un momento libero nemmeno quando sono seduti in un bar a prendere un caffè, poiché basta girare un attimo lo sguardo per assistere a scene di bambini maltrattati e infanzie rovinate. È grazie a loro se possiamo dormire tranquilli, sembra suggerire la regista.
Ed ecco che l'abuso di potere non è più un problema, perché loro sono la Police e quindi possono (c'è una scena in cui vengono pronunciate più o meno le stesse parole), e andare a prelevare con la forza i bambini in un campo rom per schiaffarli in un collegio diventa cosa giusta e bella, la cui durezza viene poi esorcizzata in una scena che ancora spero di essermi solo immaginato: i giovani zingari, in lacrime fino a pochi minuti prima, salgono sul pullman delle forze dell'ordine e si mettono a cantare e a ballare in compagnia degli eroici poliziotti sorridenti. Roba da vomito.
Ma gli eroi, si sa, devono comunque avere dei problemi perché in fondo sono persone comuni, e allora entriamo anche nelle vite private di ciascuno di loro, in un'accozzaglia di scene ripetitive e stereotipate fino all'inverosimile (i dialoghi politici su Sarko; la moglie che vorrebbe che il marito poliziotto le raccontasse qualcosa del suo lavoro e il marito che risponde – urlando senza ragione, ché così è tutto più realistico e disperato – che non c'è niente di bello in quello che fa; la poliziotta anoressica che odia gli uomini; il poliziotto incazzato con tutto e tutti e tante altre simpatiche situazioni familiari che vengono trattate con maggior rigore e sensibilità anche nel peggiore dei cinepanettoni).
E la regista, forse preoccupata che le due ore abbondanti possano risultare eccessive (e lo sono), sovraccarica dialoghi e contenuti, disorientando attori (escluso Joey Starr, che sfortunatamente si è beccato il ruolo principale ma non è chiaramente un attore e compare nel film solo perché nella realtà, se ho ben capito, va a letto con Maïwenn) e spettatori. La convinzione che debba sempre e comunque succedere qualcosa di estremamente drammatico, che si tratti del lavoro quotidiano, delle implicazioni politiche o delle dinamiche dei rapporti fra i vari corpi della polizia (la BPM viene considerata dagli altri poliziotti come una sorta di reparto minore), appare quindi inutile e contribuisce a rendere il risultato finale una sorta di parodia involontaria.
Certo è facile spingere lo spettatore a simpatizzare per le giovani vittime descritte nel film; meno facile è non scadere in un superficiale ed irritante moralismo conformista da due soldi.

03/20

Per due pareri completamente diversi, leggete la recensione Fordiana e quella Cannibale.


lunedì 26 marzo 2012

Undisputed Trilogy


Non sono mai stato un particolare fan dei film di arti marziali o degli sport da combattimento, però, come molti umani maschi nati all'inizio degli anni '80, sono cinematograficamente cresciuto anche coi film di Van Damme e soci. Con questa trilogia (in particolar modo coi due film di Florentine) mi è sembrato di tornare indietro nel tempo e quindi eccoci qui. Sono ovviamente presenti spoiler.

Nel 2002, fra l'indifferenza generale, esce Undisputed. Alla regia un veterano del genere, Walter Hill, che si occupa anche della sceneggiatura insieme a David Giler, i cui lavori di maggior rilievo rimangono quelli legati alla saga di Alien. Il film è un onesto dramma carcerario con Wesley Snipes e Ving Rhames, senza nulla di particolare da dire ma ben diretto e tutto sommato gradevole. La storia è semplice: George Chambers, famosissimo campione di boxe ispirato alla figura di Mike Tyson, viene accusato di stupro e rinchiuso in un carcere in mezzo al deserto. Il boss mafioso Peter Falk ne approfitta per organizzare un incontro fra Chambers e Monroe Hutchen, ex giovane promessa della boxe, imbattuto da più di dieci anni di tornei carcerari.
Quattro anni dopo, con l'aiuto di alcuni produttori del primo, si decide di girare un sequel. E si saranno chiesti: “che stile gli diamo, come lo facciamo?” La risposta dev'essere stata un coro unanime del tipo: “facciamolo ZARRO!” E così è stato.


E quindi, riprendendo a grandi linee la trama del primo ma invertendo buoni e cattivi, chiamano Michael Jai White nel ruolo di Chambers e Scott Adkins in quello del personaggio d'azione più pericoloso che si sia visto in giro negli ultimi anni: Yuri Boyka, “the most complete fighter in the world; the next stage”, come a lui piace tanto ricordare. White già lo si era visto in giro in qualche blockbuster sparso e in Black Dynamite, quasi sempre “in borghese”, e poi anche nel bruttino Blood and Bone, dove interpreta un ruolo molto simile a quello di Chambers, non tanto per quanto riguarda la personalità, quanto per l'abilità nello spaccare i culi. E poi c'è questo Adkins, che io non conoscevo (in realtà aveva fatto qualche comparsata in film come Danny the Dog e Bourne Ultimatum) e che, come si scriveva prima, riesce a conquistare pubblico e critica (?) guadagnandosi pure il ruolo da protagonista nel terzo capitolo. In questa serie, infatti, hanno l'abitudine di fare del cattivo di un film il personaggio principale del seguente: Chambers (ma non Ving Rhames) torna nel secondo e diventa buono, Boyka torna nel terzo e diventa un filino meno cattivo. Ma per ora fermiamoci al secondo: The Last Man Standing.
Chambers, dopo essersi fatto mazzolare da Snipes, si trova in Russia per girare uno spot pubblicitario e per una serie di incontri organizzati. Si dà il caso che lì in Russia ci sia anche Gaga, un mafioso che si occupa di scommesse sui combattimenti fra carcerati. Preoccupato per il suo giro d'affari, Gaga fa in modo che Chambers venga trovato in possesso di un grande quantitativo di droga e sia quindi rinchiuso nel carcere in cui si trova Boyka. Le sue intenzioni sono chiare: organizzare un incontro fra i due. Ed è proprio sulla fisicità di Jai White e di Adkins che si regge il film.
Il primo è il cattivo buono per cui si fa il tifo e che si allena su questa canzone qui, il secondo è uno spietatissimo russo dal passato oscuro, capo incontrastato della prigione; cattivo, ma a suo modo anche leale: c'è un momento in cui per facilitargli le cose gli drogano a sua insaputa l'avversario, che lui quindi batte senza troppi problemi (lo avrebbe battuto comunque, diciamolo); quando lui però viene a saperlo la prende malino e “spiega” ai malcapitati di turno che per vincere non ha bisogno di certi trucchetti.


Le differenze fra il film di Walter Hill e questo di Florentine appaiono evidenti fin da subito. Il primo è un sottovalutato dramma d'azione senza pretese diretto da uno che il cinema d'azione sa come trattarlo, peraltro già avvezzo ai film di combattimento; il secondo abbandona (ma non del tutto) le componenti più drammatiche e si concentra su quelle adrenaliniche, diventando pura apologia della tamarraggine. La storia c'è ma, malgrado Florentine e soci abbiano fatto un buon lavoro nel curare una trama che non diventi una mera scusa per arrivare alle scene di violenza, i combattimenti rappresentano sicuramente il punto di maggior interesse della pellicola. Diretti ed eseguiti con stupefacente maestria, contengono mosse inimmaginabili e cartelle in faccia che ti fai male solo a guardarle. La macchina da presa non viene scossa freneticamente per inserire lo spettatore nell'azione, il montaggio è ridotto al minimo se si pensa ad altri combattimenti corpo a corpo del cinema americano recente e i virtuosismi si limitano a pochi ralenti ed accelerazioni improvvise.
È una ricetta che funziona e infatti, quando quattro anni dopo arriva il momento dell'inevitabile terzo capitolo, gli ingredienti restano più o meno gli stessi.
Boyka, sempre più zarro ma con una gamba praticamente fuori uso, si offende quando nel carcere in cui un tempo spadroneggiava arriva un nuovo campione di arti marziali, che Gaga (sempre lui) sceglierà per partecipare ad un importante torneo fra carcerati al cui vincitore verrà garantita la libertà. Credibilità della trama prossima allo zero ma applausi garantiti già dopo pochi minuti, quando Boyka irrompe nella sala in cui il nuovo campioncino ha appena vinto un incontro, gli lancia addosso un secchio d'acqua e lo sfida a combattere. Vince facile, e si aggiudica un posto al torneo.
L'unica differenza rispetto al secondo è il modo in cui viene strutturata la vicenda: al torneo partecipano otto atleti e vediamo tutti i combattimenti, anche quando sul ring non ci sono Boyka o il suo nuovo amichetto del cuore Turbo, secondo protagonista del film. Il cattivo, in questo caso, è interpretato da un certo Zaror, efficace nella parte di un assassino squilibrato. Calci rotanti e sganassoni vari trovano spazio anche al di fuori del ring, ad esempio in una mega rissa fra Boyka, Turbo e una ventina di secondini armati di manganello.
Non sono certo pellicole adatte a tutti, ma rappresentano una visione obbligatoria per gli appassionati dei film di legnate. Va anche detto che chiunque di voi sia un patito del genere avrà già visto tutt'e tre i film, il che rende questa recensione fondamentalmente inutile.

Undisputed (Walter Hill, 2002) 12/20
Undisputed 2: Last Man Standing (Isaac Florentine, 2006) 13/20
Undisputed 3: Redemption (Isaac Florentine, 2010) 13/20

giovedì 15 marzo 2012

Last Life in the Universe


Ruang rak noi nid mahasan
Di Pen-Ek Ratanaruang, 2003 (Thailandia, Giappone), 112 min.
Con Tadanobu Asano, Sinitta Boonyasak, Laila Boonyasak, Takashi Miike
Scritto da Pen-Ek Ratanaruang, Prabda Yoon

Kenji sta preparando l'ennesimo tentativo di suicidio: la corda è fissata, nel suo appartamento stracolmo di libri non vola una mosca e lui già si immagina la scena di quando troveranno il suo cadavere ancora appeso per il collo. Ad interrompere la scena, giusto in tempo, ci pensa suo fratello Yukio, membro della yakuza appena arrivato a Bangkok dal Giappone. Personaggio fastidioso, arrogante, invadente; non si fa troppi problemi a prendere in giro il fratello per i suoi tentativi di suicidio e inizia a trattarlo come uno schiavo già dopo pochi secondi. Kenji, invece, è tutto il contrario: è riservato, parla poco ed è gentile con tutti, fratello compreso. Dopo i pochi minuti necessari per entrare in sintonia coi personaggi, Kenji rimane coinvolto in uno confronto mortale fra Yukio e un altro membro della yakuza, e si ritrova con due cadaveri in casa.
Nel frattempo ci vengono brevemente presentate Noi e Nid, due sorelle che non fanno altro che litigare. Sono in macchina e stanno tornando a casa, ma ad un certo punto Noi dice qualcosa di troppo e Nid ferma la macchina dicendole di scendere. Dopo qualche secondo, ferma in mezzo alla strada, Noi si accorge di un uomo che sta per buttarsi giù dal ponte. Si tratta di Kenji, che si gira a sua volta e prova a sorriderle. L'improvvisa intesa che si è creata fra i due personaggi viene però interrotta da una macchina che travolge Noi, uccidendola.
Kenji accompagnerà poi Nid all'ospedale e in seguito pure a casa sua, e scoprirà di avere un motivo in più per continuare a vivere.
Quella di due vite che si ritrovano legate per via di un incidente è una trama che non sembra effettivamente dire nulla di nuovo, ma questo non è un film sul dolore o sul superamento di un trauma, e la morte improvvisa di Noi non lascia tracce pesanti sul resto della pellicola. Al centro dell'attenzione vi è lo strano rapporto che si instaura fra Nid e Kenji e la parte più importante della vicenda è quasi interamente ambientata nella disordinata e semidistrutta casa di lei, dove i due personaggi si parlano provando ad imparare uno la lingua dell'altra (con l'aiuto di qualche frase in inglese), passando la maggior parte del tempo a fumare erba sdraiati sul divano.
Si vive, quindi, in un mondo a parte, isolati dalla società ed immersi in un'incantevole atmosfera che il regista è bravo a non rendere mai invadente o fuori luogo.
Questa nuova amicizia permetterà inoltre al timido Kenji di ritrovare un certo interesse nelle cose, e una delle prime risoluzioni sarà quella di aiutare Nid a pulire e ordinare l'appartamento. In seguito si ritroverà pure a dover difendere la ragazza da uno strano individuo che la perseguita, in una scena che permetterà, attraverso un semplice tatuaggio, di scoprire finalmente qualcosa in più sul passato del protagonista e sul perché abbia deciso di trasferirsi a Bangkok.
A complicare le cose, dopo più di un'ora di pellicola a metà fra il romantico ed il surreale (bellissima la scena in cui la casa si mette a posto da sola), arrivano dal Giappone i colleghi mafiosi del fratello di Kenji, la cui improvvisa entrata in scena condurrà la pellicola all'enigmatico finale.

17/20

martedì 13 marzo 2012

You really should see these - Day 3: Road movies


Ultima puntata del You really should see these, dedicata interamente ai road movies. Non mi sono però limitato ai road movies classici e ho compilato una lunga lista di film in cui il viaggio è uno degli aspetti più importanti.
Conta il concetto di viaggio (o di fuga) e non di arrivo, quindi. La meta importa solo fino a un certo punto: può anche non esserci oppure corrispondere al luogo da cui si è partiti.
Non è un genere ben definito e i sette titoli che ho scelto, tranne qualche piccola eccezione, sono diversissimi fra loro, ma ho voluto fare una classifica un po' diversa e si è pure rivelata un'ottima occasione per mettere due o tre dei miei film preferiti. Spero che rientri comunque nelle regole scritte da Elio, che come al solito riporto anche qui:

1) Essendo difficile scegliere un unico genere o filone cinematografico, non lo si farà. Se ne possono scegliere 3, ed ogni giorno sarà dedicato ad un genere diverso.
2) Ogni classifica dovrà contare solo ed esclusivamente 7 pellicole.
3) Il genere dovrà essere introdotto, brevemente o meno, e le scelte dovranno essere giustificate, sì da rendere ulteriormente utili le singole classifiche.

Chiunque dovesse decidere di farlo, oltre a rispettare le regole appena scritte, dovrà semplicemente riportare l'identificativa e fantastica immagine ad inizio post.




7. Punto Zero (Richard C. Sarafian, 1971)
Il lungo ed allucinato viaggio di Kowalski, che deve partire da Denver per andare a consegnare una macchina a S. Francisco e che per una scommessa col suo spacciatore decide di affrettare i tempi imponendosi un tempo limite praticamente impossibile da rispettare. A seguire la sua folle corsa, un dj che ne incoraggia la fuga dalle forze dell'ordine e il cui studio verrà poi assalito dalla polizia e da alcuni “manifestanti”. Accolto non troppo positivamente dalla critica, col passare degli anni è diventato un citatissimo cult movie, da Tarantino in Death Proof ai Primal Scream che gli dedicano un intero album.



6. Into the Wild (Sean Penn, 2007)
Di nuovo una fuga. Dallo stesso “nemico”, si potrebbe dire. Ma se Kowalski, per andarsene da un modo di vivere che non lo soddisfa, decide di montare in sella alla sua Challenger, McCandless sceglie il percorso inverso. Si libera della maggior parte dei beni di consumo che possiede, scappa da un futuro che gli avrebbe garantito soldi e vita facile, abbandona gli affetti e comincia il suo viaggio con un'unica idea in testa: allontanarsi il più possibile da una società fatta di obblighi e convenzioni avvicinandosi alla Natura e ad un modo di vivere più libero ed appagante.
Penn, pur non giudicando il protagonista, è comunque bravo nell'insistere sui motivi che lo hanno portato al totale abbandono di un'esistenza programmata a priori.



5. Valhalla Rising (Nicolas Winding Refn, 2009)
Tempi dilatati, abbandono quasi totale dei dialoghi. L'Uomo si allontana dalla Natura con la pretesa che la religione possa fornire risposte che non esistono.
Da qui nasce lo smarrimento che assale chiunque creda che attraverso un presunto dio sia possibile elevarsi al di sopra degli altri e imporre una visione gerarchica della vita. Questo smarrimento si tramuterà in follia e infine in cieca violenza. Alla fine del lungo viaggio, l'unico a trovare se stesso sarà proprio One-Eye, il guerriero muto in cerca del Valhalla.



4. Cinque pezzi facili (Bob Rafelson, 1970)
Dupea, dopo aver rinnegato le sue origini borghesi, trova lavoro come operaio in California. Ma la ripetitività di questa sua nuova vita incomincia a stancarlo e sente il bisogno di andarsene nuovamente, abbandonando amori e amicizie.
Terzo film della classifica in cui il viaggiare si rivela come una fuga in piena regola; un ribellarsi ad un qualcosa di non ben definito che soffoca e rattrista, e da cui si sente quindi il bisogno di scappare. Nicholson eccezionale.



3. Stranger than paradise (Jim Jarmusch, 1984)
Eva arriva a Cleveland dall'Ungheria e suo cugino Willie è costretto ad ospitarla per una decina di giorni, il tempo necessario affinché la zia di lei venga dimessa dall'ospedale.
Uno dei pochi road movies in cui i personaggi non subiscono cambiamenti. Si viaggia svogliatamente, quasi per inerzia, un po' per piacere e un po' perché non c'è fondamentalmente nulla di meglio da fare. Eppure si scherza, si ride e ci si innamora pure, ascoltando I Put A Spell on You di Screamin' Jay Hawkins lungo le strade deserte delle periferie americane. Ma Jarmusch, come al solito, rimane in bilico fra l'ironia ed un'inevitabile malinconia di fondo.



2. Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979)
Me ne rendo conto: il film di Coppola, in questa classifica, sembra un po' un intruso. Ma il viaggio, in questo caso, conta ben più di un conflitto che viene affrontato solo in parte e mai in modo troppo insistito. Ovviamente le intenzioni erano quelle di parlare del Vietnam, ma Coppola sceglie di farlo attraverso la follia che, come una malattia, si impossessa dei soldati, limitando le scene di battaglia e aggiungendo un personaggio (Kurtz) in grado di rappresentare in modo perfetto “l'orrore” ricercato dal regista.
Una lunga ed ipnotica avventura – questa volta con una meta – che si rivelerà ben più complicata del previsto.



1. Pierrot le fou (Jean-Luc Godard, 1965)
Giudicato scandaloso da benpensanti e conservatori dell'epoca, fu addirittura vietato ai minori di 18 anni. Il motivo ufficiale: “un anarchisme intellectuel et moral” (un anarchismo intellettuale e morale). Pierrot e Marianne, delinquenti, scappano dalle apparenze e dall'ipocrisia di quella che Belmondo definisce la “civiltà dei culi” e iniziano un lungo viaggio senza meta, logica o regole attraverso la Francia.
Probabilmente uno dei film più rivoluzionari della già di per sé rivoluzionaria Nouvelle Vague. Sia per la messa in scena che per i contenuti. Godard critica consumismo (quello della “società dei culi” di cui sopra), capitalismo, politiche imperialiste, produzione di armi e tutto quanto possa opporsi allo spirito libertario dei due innamorati in fuga, che continueranno a viaggiare e cantare senza una meta precisa, fino alla fine.