giovedì 22 dicembre 2011

Apollo 18


Di Gonzalo López-Gallego, 2011 (USA, Canada), 86 min.
Con Warren Christie, Lloyd Owen, Ryan Robbins
Scritto da Brian Miller, Cory Goodman

Qualche breve intervista di repertorio ci presenta subito i tre membri dell'equipaggio dell'Apollo 18 in procinto di partire per la Luna. La loro era una missione segreta di cui non è mai stato fatto sapere nulla, ma ora, su un sito internet, sono state caricate le oltre 80 ore di filmati ritrovati. Apollo 18 è il montaggio di 75 minuti che permette di farsi un'idea abbastanza precisa dell'accaduto.
Sono presenti lievi spoiler, ma credo niente che possa rovinare la visione del film.


Il mockumentary, genere sempre più in voga e quindi sempre più rischioso da affrontare, presuppone che il materiale video presentato allo spettatore sia reale. Reali le immagini, il sonoro, i personaggi, reale pure il modo in cui il filmato è stato recuperato e reso disponibile a chi lo sta guardando. In questo caso si è scelto quello più usato: il ritrovamento dei video, il famoso found footage.
Ci siamo? No, non ci siamo, prima di tutto perché devi fornirmi una spiegazione logica al ritrovamento del video, e poi perché se vuoi farmi vedere un mockumentary dell'orrore ed alla prima occasione buona, per spaventarmi, mi spari a tutto volume degli effetti sonori che di realistico non hanno proprio nulla, come se di mockumentary non si trattasse, partiamo già col piede sbagliato, e per riconquistarti la mia fiducia dovrai faticare il doppio. Ma López-Gallego non sembra avere l'intenzione di scomodarsi più di tanto, perlomeno non nei primi tre quarti d'ora di pellicola, e la storia fatica quindi ad ingranare.


Le cose incominciano a farsi un minimo interessanti quando i due astronauti (il terzo è rimasto in orbita attorno alla Luna) si rendono conto che il vero nemico non è un cosmonauta assassino uscito di senno (siamo in piena guerra fredda e si dà il caso che sulla Luna siano stati mandati anche i russi), ma un qualcosa di non ben definito, sicuramente ostile e presumibilmente anche parecchio incazzato. Per non anticipare troppo, lascio a voi il piacere di scoprirne la natura.
Da questo punto in poi, quindi, nonostante la maggior parte degli spaventi siano causati dai soliti fastidiosi rumori improvvisi, si incomincia ad avvertire un po' di angoscia. Il che sarebbe anche normale, in una storia ambientata nello spazio, con la Terra ridotta ad un piccolo pallino all'orizzonte e una minaccia aliena pronta ad attaccare in qualsiasi momento. Sia chiaro, è giusto che un film di questo tipo eviti di terrorizzare da subito lo spettatore, e ben vengano le attese e una lenta costruzione della tensione (basti pensare ai primi venti minuti di [Rec] o di Cloverfield), ma qui, di costruito, c'è davvero poco, e la totale mancanza di intensità della prima parte finisce per rovinare anche la seconda, che non regala  comunque nulla di particolarmente interessante.
Insomma, a parte le claustrofobiche ambientazioni e qualche timido spavento, Apollo 18 è un film freddo e troppo poco coinvolgente, a cui manca quella personalità che un found footage movie, per sopperire alle inevitabili carenze tecniche, dovrebbe avere.

07/20

mercoledì 21 dicembre 2011

Let me in



Di Matt Reeves, 2010 (USA, UK), 116 min.
Con Kodi Smit-McPhee, Chloë Grace Moretz, Richard Jenkins, Elias Koteas
Scritto da Matt Reeves, tratto dal romanzo di John Ajvide Lindqvist

Non sono contro i remake, non a prescindere. Certo è raro che riescano ad avvicinarsi ai livelli della prima versione e il più delle volte risultano assolutamente inutili, ma in certi casi hanno anche il pregio di far riscoprire il film originale, e in altri ne interpretano invece la storia in modo diverso, concentrandosi su aspetti che il primo film aveva tralasciato.
Quelli che invece mi lasciano davvero basito sono i remake di film usciti da poco, e “poco”, in questo caso, vuol dire appena due anni. Ci sarebbe la scusante della diversa nazionalità, ma il film di Alfredson, molto più famoso di questo Blood Story, non aveva certo bisogno di un'operazione del genere.


La storia è sempre quella: Owen, bambino timido e solitario preso in giro dai compagni di scuola, conosce Abby, una nuova vicina venuta ad abitare proprio nell'appartamento accanto al suo, e trova in lei una via di fuga da una vita che certo non lo soddisfa. I due incominciano quindi a vedersi sempre più di frequente, diventando quasi inseparabili. Nel frattempo, la quiete del paesino in cui abitano viene scossa da una serie di brutali omicidi, e Owen si rende presto conto che la responsabile potrebbe essere proprio la sua nuova amica.

A Reeves va riconosciuto il merito di aver ripreso le atmosfere di Lasciami entrare senza trasformare il tutto in una gran tamarrata. Questo è un film lento e misterioso, ben diretto e ottimamente fotografato. Al bianco dominante del film di Alfredson si aggiunge l'arancione delle luci notturne, sfruttato soprattutto durante i primi incontri fra Owen ed Abby nel cortile davanti a casa, ma oltre a questa non ci sono particolari differenze e Reeves, senza inventarsi nulla, dirige il suo film basandosi pesantemente sull'originale, forse fin troppo. Il problema, forse causato proprio dal fatto che tutto quello che vediamo ci era già stato proposto in precedenza, è che dell'originale non conserva quella sensazione di inquietante smarrimento che lo rendeva, a mio parere, uno dei migliori film sui vampiri usciti negli ultimi anni. Le personalità dei due ragazzini (specialmente quella di Eli/Abby), sulle quali è costruito praticamente l'intero film, sono infatti descritte in maniera più profonda e sentita nella sceneggiatura di Lindqvist, e il risultato finale non può non risentirne.
In fin dei conti Let me in è un remake leggermente più caldo e patinato del film del 2008, forse altrettanto disturbante e violento ma sicuramente meno suggestivo.
Da notare comunque il pledge of allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti, imposto ad una classe di poveri bambini innocenti in quella che è sicuramente la scena più inquietante dei due film messi insieme.
Carino, ma già c'era.

13/20

domenica 18 dicembre 2011

Offscreen


Di Christoffer Boe, 2006 (Danimarca), 93 min.
Con Nicolas Bro, Lene Maria Christensen, Christoffer Boe
Scritto da Knud Romer Jørgensen, Christoffer Boe

Nicolas Bro, attore danese di successo, decide di fare un film su se stesso e sulla sua relazione con Lene. Un film sull'amore, lo chiama lui. Si rivolge quindi all'amico regista Christoffer Boe per farsi dare qualche consiglio e rimediare una telecamera con cui iniziare il progetto, che sembra avere un'unica e semplicissima regola: filmare tutto, o quasi, senza censure. Telecamera costantemente accesa e decine di nastri al giorno su cui vengono catturati i preparativi dietro le quinte prima di uno spettacolo, uscite con gli amici, escursioni in macchina e, soprattutto, i primi gravi litigi di coppia fra Nicolas e Lene, la quale si dimostra sempre più contraria a farsi riprendere praticamente senza pause. Se ne andrà, quindi, dopo una quasi patetica scena d'addio – sempre rigorosamente filmata – che darà il via all'inesorabile aggravarsi delle ossessioni di Bro.


Offscreen viene presentato come il risultato finale, curato e montato da Boe, delle innumerevoli ore di filmati di Bro. Un mockumentary di novanta minuti che inizia proprio nel momento in cui Bro, già munito di una telecamera, parla per la prima volta a Christoffer del progetto che intende portare avanti.
La prima parte è quindi la meno interessante: un lungo insieme di riprese amatoriali che ci fanno conoscere Nicolas, personaggio insicuro e a tratti sgradevole, con le sue paranoie sul rapporto sempre più instabile con la moglie e i dubbi riguardo al film che ha appena iniziato a realizzare e di cui non riesce ad avere un'idea ben definita. Il progetto sembra dover definitivamente crollare quando Lene, che del film dovrebbe essere il personaggo principale, decide di andarsene. Bro si ritrova improvvisamente solo, senza moglie e senza attrice principale, ed è a questo punto che Offscreen incomincia ad avere una vera e propria identità. L'ossessione di filmare ogni momento della giornata trasforma Bro in una specie di schiavo della telecamera, una vittima impotente che si allontana da colleghi ed amici isolandosi in un mondo a parte. Servirà a poco chiedere ad una sua amica attrice di rimpiazzare Lene per poter andare avanti col film, anzi, l'entrata in scena di Trine (anche lei nella parte di se stessa) non farà altro che peggiorare la situazione, contribuendo alla crescente confusione fra realtà e finzione che porterà Bro al disturbante e sanguinoso delirio della parte finale.

Il film funziona perché riesce a far entrare progressivamente lo spettatore nel viaggio mentale del protagonista, diventando una sorta di riflessione tanto seria quanto malata sulla funzione dell'attore ma soprattutto sul desiderio sempre più generalizzato di voler apparire ad ogni costo. Emblematiche quindi le inquietanti scene in cui Bro passa da una stanza all'altra del suo nuovo appartamento, riempito di telecamere fisse e ormai simile in tutto e per tutto al bunker di un Grande Fratello qualsiasi.

Un grazie ad Elio per avermelo consigliato. La sua recensione la trovate qui.

14/20

venerdì 16 dicembre 2011

Ballata dell'odio e dell'amore


Balada triste de trompeta
Di Álex de la Iglesia, 2010 (Spagna, Francia), 107 min.
Con Carlos Areces, Antonio de la Torre, Carolina Bang
Scritto da Álex de la Iglesia

Javier, come gli fa notare suo padre all'inizio della pellicola, non è mai stato giovane. Cresciuto in mezzo alla guerra, non ha conosciuto altro che sofferenza e miseria. Quando si tratta di scegliere se diventare un payaso tonto o un payaso triste, la decisione è quindi inevitabile: non si possono far ridere i bambini se bambini non lo si è mai stati. Dopo la breve ma importantissima scena iniziale, ambientata nel pieno della guerra civile spagnola, ci si sposta nel 1973: Javier trova lavoro nel circo di Sergio, clown di successo noto anche per essere un violento ubriacone; gli farà da spalla, conoscerà Natalia, la sua compagna trapezista, se ne innamorerà (ricambiato?) e deciderà di dare una svolta alla propria vita.


Balada triste de trompeta è un film chiaramente diviso in due parti: una più classica e pacata, stravagante solo a tratti, e un'altra, la seconda, decisamente più sregolata e sopra le righe, in cui de la Iglesia si sfoga inserendo tutte le particolarità che hanno reso famoso il suo modo di fare cinema, senza preoccuparsi di esagerare o di dare una vera e propria logica al racconto. Il suo vuole essere un film libero, senza restrizioni. Dopo la scena introduttiva, che mette in ridicolo i dogmi militareschi contrapponendoli allo spettacolo di due pagliacci e alle risate dei bambini accorsi a vederli, l'accusa alla guerra e all'autoritarismo passa poi attraverso la lotta senza esclusione di colpi fra il violento Sergio e il timido Javier che, mosso dall'amore e dal desiderio di vendetta che si porta dietro dai tempi della morte del padre, si ribellerà diventando ancora più spietato del suo antagonista.
Ma Balada triste non è solo guerra civile, Franco (fantastica la sua breve e ridicola apparizione) e storia spagnola: il racconto funzionerebbe anche come semplice storia d'amore e di passione. Il triangolo sentimentale fra i tre personaggi principali regala prima momenti di estrema tenerezza, per poi sfociare nell'inattesa violenza su cui si baserà tutta la seconda parte del film.
Il contesto circense permette inoltre al regista di poter sfruttare al massimo la sua passione per il grottesco: personaggi bizzarri e situazioni surreali non sembrano mai fuori luogo e si adattano perfettamente alla narrazione sopra le righe, che vede la sua perfetta conclusione in uno dei finali più assurdi che mi sia capitato di vedere ultimamente.
Disperato, urlato, malinconico e divertente, probabilmente uno dei migliori di de la Iglesia.

16/20

giovedì 1 dicembre 2011

Super 8



Di J.J. Abrams, 2011 (USA), 112 min.
Con Joel Courtney, Elle Fanning, Riley Griffiths, Ryan Lee, Zach Mills, Kyle Chandler, David Gallagher, Bruce Greenwood
Scritto da J.J. Abrams

A Lilian, classica cittadina americana (fittizia) in cui non siamo mai stati ma che già ci sembra di conoscere a memoria, sta per iniziare l'estate del 1979. Joe e il suo gruppetto di amici stanno girando un film horror amatoriale per partecipare ad un concorso e durante una ripresa notturna vicino alla stazione assistono casualmente al deragliamento di un treno militare. I soccorsi però non tardano ad arrivare, e i ragazzini sono costretti ad abbandonare in fretta e furia il luogo dell'incidente. Quello che non sanno è che il treno trasportava un pericoloso ospite indesiderato, e che da quel momento in poi le loro vite non saranno più le stesse.



Presentata già mesi prima dalla sua uscita come una specie di operazione nostalgia in grande stile, l'opera di Abrams contiene tutti gli elementi del cinema di fantascienza “commerciale” che ormai è sempre più raro vedere e che in questo caso speravo proprio di riscontrare. L'intento di omaggiare le atmosfere spensierate dello Spielberg degli anni d'oro, quello di E.T. ed Incontri ravvicinati del terzo tipo e che dopo Jurassic Park, per quanto mi riguarda, non si è più fatto vedere, è riuscito alla perfezione. Abrams poi non si accontenta di puntare esclusivamente sull'ambientazione nostalgica, ma di quegli anni riprende anche il modo di fare cinema, con l'unico obiettivo di incantare lo spettatore. Insomma, Super 8 è una goduria. Bello già dal trailer, che per una volta ci fa vedere ben poco di quello che ci aspetta e in cui il “mostro” non appare nemmeno per sbaglio. Cosa rara, ora che per attirare lo spettatore nelle sale è pratica comune mostrare nel trailer la maggior parte delle scene cruciali del film.

1979: niente internet o telefonini. A Lilian, per comunicare, si usano i walkie-talkie, si va in giro in bicicletta e si ascoltano Knack e Blondie; un piccolo universo a parte in cui è facile tenere nascosto al resto del mondo il deragliamento di un treno con la conseguente fuga dell'alieno al suo interno. Da questo punto di vista i militari – finalmente cattivi, stupidi e volutamente poco approfonditi - hanno vita facile. Ma i militari, così come tutti gli adulti del film, sono solo uno strumento, protagonisti secondari di una storia che non si concentra né su di loro né sull'alieno, ma prevalentemente sul gruppo di giovani amici. Ed è per questo che il film funziona. C'è l'incanto, quello che loro vivono in prima persona, senza corruzioni o elementi aggiuntivi di troppo: cinema fantastico nel vero senso della parola.


E non era facile, girare un film del genere. Fracassone ma non in modo invasivo, con scene d'azione in vecchio stile mai frenetiche e cariche anche di una certa tensione; giocato sui sentimenti (solito rapporto difficile fra padre e figlio in seguito alla morte della madre, primi amori, incomprensioni fra amici...) ma che non cerca mai la lacrima facile. Abrams vuole divertirsi e divertire, con la consapevolezza di poterlo fare senza ricorrere ad un uso esagerato degli effetti speciali ma puntando sulla storia che intende raccontare e su una perfetta gestione del ritmo e dei colpi di scena. Infarcendo il film di riferimenti al cinema horror e di fantascienza (Romero, Carpenter, E.T. e tanti altri), riesce comunque ad andare oltre, dimostrando intelligenza e personalità.
Mi ha fatto anche piacere notare che in un PG-13 fossero presenti parolacce, droga e sangue, elementi che in questo tipo di produzioni vengono solitamente censurati senza pietà, ma che qui vengono usati con ironia.
Bellissimo, una delle sorprese più piacevoli dell'anno.

Ho tolto i soliti cuoricini e messo un voto su 20, come nel sistema scolastico (e un po' anche universitario) francese in cui sono cresciuto. Questa volta, almeno, i voti non li subisco ma mi diverto a darli. Sempre senza pretese, ovviamente. In questo caso il voto è davvero alto, ma ha deciso il cuore.

17/20

lunedì 7 novembre 2011

The Limits of Control


Di Jim Jarmusch, 2009 (USA, Giappone), 116 min.
Con Isaach De Bankolé, Alex Descas, Luis Tosar, Paz de la Huerta, Tilda Swinton, Youki Kudoh, John Hurt, Gael García Bernal, Bill Murray
Scritto da Jim Jarmusch

Un killer senza nome, elegante e di poche parole, se ne va in giro per l'Andalusia seguendo le incomprensibili istruzioni che i suoi vari contatti gli consegnano in piccole scatole per fiammiferi. Numeri e lettere scritti apparentemente a caso che lo guidano ogni volta verso una nuova destinazione.
I contatti, con cui il killer ha brevi e singolari conversazioni, sono eccentrici anche per i personaggi a cui Jarmusch ci aveva precedentemente abituati: un'appassionata di cinema classico, una studiosa di molecole, una ragazza costantemente nuda, un vecchio amante della pittura...
Tutti questi incontri hanno come unico scopo quello di avvicinare il killer ad un misterioso uomo d'affari americano nascosto in una villa circondata da guardie armate.


La trama è quella di un film d'azione, ma il film è ovviamente quello che ci si aspetterebbe da uno dei registi più particolari in circolazione, che malgrado qualche piccola novità, non ha sicuramente cambiato modo di fare cinema: il suo tocco c'è ed è sempre più ricercato e personale. Personaggi strambi ed affascinanti, dialoghi surreali, tempi lenti e, soprattutto, quell'incomunicabilità che ha sempre fatto da sfondo ad ogni sua storia, rappresentando più un vantaggio che un vero e proprio ostacolo. I dialoghi fra Forest Whitaker e Isaach De Bankolé (qui nel ruolo del killer) in Ghost Dog ne sono forse la prova più lampante.
I silenzi però contano quanto i dialoghi, ed è proprio uno dei contatti del killer, La Bionda, a farlo notare: "mi piace quando nei film gli attori se ne stanno seduti senza dire niente", dice in un momento morto della conversazione, sorridendo e guardando nel vuoto.
A catturare l'attenzione dello spettatore sono dettagli come questo, quelle piccole cose su cui solitamente non ci si sofferma. E così le prove di uno spettacolo di flamenco, osservate da un incantato killer solitario in una delle scene più belle del film, diventano molto più importanti e significative dello spettacolo vero e proprio, che infatti neanche vedremo.

Di nuovo c'è invece una ricerca estetica che Jarmusch non aveva forse mai affrontato in questo modo: fotografia curatissima e colorata (evidente soprattutto nella bellissima scena in treno con Molecules, la ragazza appassionata di molecole), qualche inusuale movimento di camera e addirittura due o tre brevi scene al ralenti.
L'aspetto più sorprendente è però il valore simbolico dell'opera. Ogni personaggio rappresenta temi come il cinema, la musica, la pittura, le droghe ed il sesso, che Jarmusch associa presumibilmente ad un concetto di libertà che il killer solitario non può raggiungere perché ancora intrappolato nei rigidi schemi di un controllo superiore. Identificare e sconfiggere quest'ultimo ostacolo diventerà quindi il suo obiettivo principale.
Ed è infatti solo alla fine che gli intenti del regista diventano chiari: che lo si voglia leggere in chiave politica o artistica, che abbia un valore generale o che si riferisca semplicemente al percorso interiore del personaggio principale, The Limits of Control rimane un film profondamente libero ed antiautoritario.
Lento, enigmatico, anarchico, malinconico, divertente, ammaliante... Un capolavoro, uno dei tanti di un Jarmusch che non la smette di stupire.

Concludo con un estratto di un'intervista a Jarmusch al Reykjavik International Film Festival del 2010. Ho deciso di metterla per la chiarezza del concetto espresso. L'audio non era molto decente, perdonate eventuali errori.

Each one of us has our own consciousness, and it is the most valuable thing we have, and it is our own. And you could be influenced, people will try to tell you what is reality. You know, I grew up with authority figures, and school, policemen, even my father, telling me things like […] “you just don't understand how the real world works”, you know, and I heard that so many times... But the real world is mine to interpret. […] And i don't like being told what is real.




p.s. Il blog è arrivato a un anno di età. Ero indeciso se scrivere o meno una specie di post celebrativo e alla fine ho deciso di farlo limitandomi ad aggiungere qualche riga alla recensione di un film. Siccome Jarmusch è uno dei registi che preferisco, The Limits of Control mi sembrava l'occasione giusta.
Quando ho deciso di aprire un blog di cinema non ne conoscevo nemmeno uno, e in poco tempo ho scoperto un intero universo di siti interessanti, curati da gente competente e con una cultura cinematografica impressionante; ho letto e continuo a leggere, in giro per la “blogosfera”, analisi di film perfette, curate e dettagliate come non capita nemmeno nelle riviste specializzate, esposte sempre con semplicità ed umiltà. Ed è proprio questo l'aspetto più positivo: gli autori sono sempre disposti al dialogo e ad accettare opinioni divergenti, senza che nessuno mai si ritenga depositario di chissà quale verità cinematografica.
I blog di cui sto parlando non sono pochi e mi hanno fatto scoprire una quantità enorme di film nuovi, e molti di questi ho la fortuna di averli fra i miei “blog amici”. Il “problema” è che continuo a scoprirne praticamente ogni giorno, ed ogni giorno ho l'impressione che Piano piano, sequenza... (eh, il titolo è venuto così, lo so...) sia meno interessante.
Nel mio piccolo ho comunque deciso di non scoraggiarmi e di continuare. Le recensioni che scrivo sono brevi e poco approfondite (e mi fermo qui per non dire altro), ma mi diverto a scriverle e spero possano risultare anche solo un minimo interessanti a chi ha la pazienza di fermarsi qui da me e di leggere periodicamente i miei post. Fra i tanti difetti c'è anche quello dei “cuoricini” che danno il voto – ovviamente soggettivo e senza nessuna pretesa - al film, e che più di una volta ho pensato di togliere.
Ad ogni modo, fra i pochi commentatori fissi e casuali, ci sono persone che in un certo senso ho conosciuto e che apprezzo molto, e questo mi basta.
I ringraziamenti di cui parlavo all'inizio sono rivolti a tutti quelli che stanno leggendo questo post: ai blogger ma anche a quei lettori esterni che non si sono mai palesati ma che ogni tanto, magari, passano di qui. Ce ne saranno? Forse uno o due, a me piace pensarlo.
Dovessi ringraziare tutti, questo diventerebbe un post troppo paraculo, e siccome già mi sembra di aver oltrepassato i limiti consentiti, scelgo di citarne tre in particolare:
Ford, il primo a commentare sul blog, bevitore incallito che dal suo primo passaggio qui non ha praticamente mai smesso di partecipare.
Alessio, con cui mi sono trovato in sintonia sia per quanto riguarda il cinema che per la visione della società in cui viviamo, e questo mi ha fatto enormemente piacere.
E Alice, il cui improvviso e dirompente arrivo da queste parti ha contribuito ad animare il blog. E anche per lei vale il discorso su cinema e società.

giovedì 3 novembre 2011

I guardiani del destino


The Adjustment Bureau
Di George Nolfi, 2011 (USA), 106 min.
Con Matt Damon, Emily Blunt, Terence Stamp, Michael Kelly, Anthony Mackie
Scritto da George Nolfi, tratto da un racconto di Philip K. Dick

La carriera di David Norris, giovane ed arrembante politico in procinto di diventare senatore, subisce un arresto improvviso a causa di alcune foto compromettenti scattate durante una festa con alcuni ex compagni di liceo. Consapevole della sconfitta, si rifugia nel bagno dell'albergo che ospita il suo intero staff per ripassare il discorso che dovrà tenere davanti ai suoi sostenitori delusi.
Si dà il caso – ma non per caso, come direbbe Vonnegut – che in quel bagno si sia nascosta anche Elise, una giovane e promettente ballerina inseguita dal servizio d'ordine dell'albergo per essersi imbucata ad un matrimonio. I due si presentano e, com'è come non è, dopo due minuti due scatta il limone duro. Sul più bello entra però nel bagno l'assistente di Norris, che interrompe la magia e fa scappare la ragazza. I due si rivedono per caso – e questa volta è davvero per caso – solo alcuni mesi dopo, su un pullman, e hanno finalmente la brillante idea di scambiarsi i numeri di telefono. Ed è qui che entrano in gioco i guardiani del titolo: un grande gruppo organizzato di persone in giacca e cravatta che governa indirettamente il mondo influenzando le decisioni degli esseri umani. Chi sono davvero? Non si può sapere. Quel che è certo è che sono comandati dal chairman. Chi è il chairman? Non si può sapere nemmeno quello, se non che noi umani “lo chiamiamo in molti modi”. Una specie di dio, quindi. Bene...
Questi simpatici guardiani, dicevo, hanno in serbo per David ed Elise altri piani, e faranno di tutto per impedire che si rivedano.


Dal film d'esordio dello sceneggiatore George Nolfi non mi aspettavo nulla di particolare, anche se, in fondo, speravo potesse riuscire ad intrattenermi un minimo. Non è andata così.
The Adjustment Bureau è un film che dall'inizio alla fine tende a rassicurare lo spettatore, tirando in ballo questioni importanti come libertà e libero arbitrio e trattandole con la stessa banalità di un quotidiano d'informazione. È un procedimento che ovviamente coinvolge anche il personaggio di David Norris, il politico anticonformista (?) che dà speranza ai giovani (e che viene riconosciuto ed applaudito da mezza discoteca in una delle scene più trash che io abbia mai visto), e che trova il suo culmine nella forzatissima ed americanissima inquadratura finale. Anche la presenza degli insipidi guardiani – “cattivi” senza esserlo, e quindi mai veramente interessanti – viene poi giustificata usando la solita e nauseante teoria secondo cui l'essere umano sarebbe un animale malvagio e violento che se lasciato solo, senza i loro ripetuti interventi, non causerebbe altro che guerre, olocausti e distruzione. Noia pura.
Noiose anche le sequenze d'azione, basate sul fatto che grazie ad un cappello magico sia possibile teletrasportarsi da un posto all'altro semplicemente aprendo una porta. Andrebbe anche bene, se almeno ci fosse un po' di suspense.
Nemmeno il lato romantico riesce a salvarsi, perché fra tutti gli inseguimenti e le paranoie sul destino dell'umanità, la storia d'amore fra Elise e David risulta soffocata e troppo poco credibile per suscitare interesse.
Insomma, dovrebbe essere una sorta di thriller romantico fantascientifico; di thriller però non c'è nulla, di romantico poca roba e di fantascienza solo qualcosina. Cosa rimane? Niente, proprio niente.

martedì 1 novembre 2011

The Woman


Di Lucky McKee, 2011 (USA), 101 min.
Con Pollyanna McIntosh, Angela Bettis, Sean Bridgers, Lauren Ashley Carter, Carlee Baker
Scritto da Lucky McKee, Jack Ketchum


Se Lucky McKee continua così, presto sfornerà un vero e proprio capolavoro, anche se, in un certo senso, questo The Woman già lo è.
Chris, avvocato di successo e padre di famiglia, scopre per caso la tana di The Woman, una ragazza selvaggia cresciuta nei boschi (per saperne di più occorrerebbe forse vedere The Offspring, di cui The Woman è il seguito). Decide quindi di catturarla per poterla “civilizzare”.
Rinchiusa in una specie di rifugio sotterraneo, la donna subirà ogni sorta di maltrattamenti e violenze.


The Woman può essere definito senza problemi un film horror, ma così come aveva fatto in May, McKee va ben oltre e dimostra di essere un regista capace di trattare temi complicati e profondi con una scioltezza ammirevole.
Il suo bellissimo film d'esordio era una specie di ritratto acuto e sensibile di una ragazza esclusa che non chiedeva altro che un po' di attenzione. La solitudine, il sentirsi diversi e incompresi... tematiche già viste e riviste in decine di film, ma sovente in modo molto più banale e conformista.
Qui McKee parla della donna, di violenza domestica, dei comportamenti malsani frutto di un'educazione distorta e autoritaria, arrivando pure a chiedersi cosa significhi davvero la parola civiltà.
Il film parte lentamente e il regista, come al solito, preferisce prima mostrarci i personaggi insistendo – ma neanche troppo – sulle dinamiche che regolano i loro rapporti. Si capisce subito che all'interno della famiglia di Chris qualcosa non va: c'è disagio, paura, soggezione. Poi, di colpo, la scena dello schiaffo. Talmente improvvisa da far rabbrividire, con la telecamera fissa sul viso della moglie che a stento trattiene le lacrime; e tutto ciò che fino a quel momento McKee aveva solo suggerito, ora te lo mostra violentemente, quasi con cattiveria. Da qui in poi il film diventa davvero potente e disturbante, senza però mai risultare esagerato. Da notare l'uso perfetto di una colonna sonora (simile a quella di May) che mai ci si aspetterebbe di sentire in certe scene.
Non si capiscono comunque le accuse di misoginia che sono state rivolte al film e a McKee, ma ormai basta che esca una pellicola un po' diversa dal solito in cui vi siano elementi che riguardino anche solo in parte i conflitti fra i due sessi per sentire roba tipo “film sessista”, “regista misogino” e "sceneggiatore depravato”. Con Antichrist d'altronde era successa la stessa cosa. In entrambi i film, ovviamente, di antifemminista non c'è proprio nulla.


domenica 30 ottobre 2011

Triangle


Di Christopher Smith, 2009 (UK, Australia), 99 min.
Con Melissa George, Liam Hemsworth, Rachael Carpani, Henry Nixon
Scritto da Christopher Smith

È abbastanza difficile parlare della trama di questo film senza rovinarne la visione, anche perché, per quanto da un certo punto in poi la storia non presenti nulla di nuovo, i trenta bellissimi minuti iniziali funzionano soprattutto se non si ha la minima idea di ciò che si sta vedendo. Quindi consiglierei a chi fosse interessato a procurarsi questo Triangle di interrompere la lettura dopo la prima foto, quella con la faccia di Melissa George in paranoia piena.
Per ora si può rivelare che il film inizia con Jess (la George) in preda alle lacrime che abbraccia il figlio, gli dice qualcosa riguardo ad un incubo di cui non ci è dato sapere nulla e poi, nella scena seguente, raggiunge ancora visibilmente scossa alcuni suoi amici al porto per una gita in barca. Il clima a bordo è relativamente sereno e pure Jess sembra adeguarsi allo stato d'animo del resto del gruppo. Le cose peggiorano quando, dopo una bevuta e una dormita, i cinque amici avvistano una tempesta formatasi all'improvviso poco lontano dalla loro barca. Riescono a contattare la guardia costiera per qualche secondo ma il segnale è disturbato, e nella comunicazione si intromette una voce di donna terrorizzata che pronuncia la solita frase ad effetto tipo “sono morti, sono tutti morti!” Poi, il silenzio. Una volta finita la tempesta la barca è inutilizzabile e alla deriva e una delle ragazze risulta dispersa. Fortunatamente (ma anche no), dopo non molto tempo sbuca dal nulla una nave su cui i nostri riescono a salire...


(Se state leggendo questa frase o avete già visto il film o non avete nessuna intenzione di recuperarlo, quindi inizio con gli spoiler.)
La nave però è deserta e girando per i corridoi i quattro trovano per terra un mazzo di chiavi appartenente a Jess: stesso fiorellino di plastica a mo' di portachiavi e, soprattutto, stesso ciondolo con tanto di foto del figlio.
Raccontare il seguito della trama fino al momento in cui il titolo del film perde ogni ambiguità (è stato girato in Australia ma nella storia ci troviamo presumibilmente al largo della Florida) e diventa chiaro che ci troviamo di fronte a realtà parallele, viaggi e paradossi temporali, sarebbe abbastanza inutile. Un'altra possibile e ancora più probabile interpretazione è data dagli stessi protagonisti nelle prime scene sulla nave da crociera, quando accennano al mito di Sisifo e al fatto che fosse stato condannato dagli dei a spingere un masso su per una collina, vederlo ricadere in basso e poi ripetere la fatica daccapo per l'eternità. Ma in questo caso, siccome a più riprese vediamo più “versioni” di ogni personaggio presenti contemporaneamente sullo schermo, sempre di viaggi nel tempo si tratta.
La storia però funziona proprio perché non viene mai fornita una spiegazione evidente e Smith, dopo l'acerbo Creep e l'inusuale Severance, con un budget relativamente basso di dodici milioni di dollari riesce finalmente nell'intento di angosciare lo spettatore. È un film semplice ma dalla messa in scena estremamente curata ed efficace. La tensione è presente dall'inizio alla fine e personalmente mi sono molto divertito. Non chiedevo altro.

venerdì 28 ottobre 2011

Sucker Punch


Di Zack Snyder, 2011 (USA, Canada), 110 min.
Con Emily Browning, Jena Malone, Abbie Cornish, Vanessa Hudgens, Jamie Chung, Carla Cugino, Oscar Isaacs, Scott Glenn
Scritto da Zack Snyder, Steve Shibuya

Snyder è uno strano. Esordisce con L'alba dei morti viventi, che pur non avvicinandosi minimamente al capolavoro a cui si ispira (ma in realtà nemmeno ci prova) riesce comunque a divertire, regalando pure una stupenda scena iniziale, per poi passare ad un film come 300, tanto curato nelle immagini quanto tristemente vuoto in tutto il resto. Torna poi a buoni livelli con Watchmen, si dedica ad un progetto di animazione che ancora devo vedere e poi se ne esce con questo Sucker Punch, che oltre a dirigere ha pensato bene pure di scrivere. Il problema è che non deve aver avuto le idee molto chiare.


Sucker Punch è la storia di Baby Doll (sì, Baby Doll), che in seguito alla morte della sorella si fa rinchiudere dal patrigno malvagio in un manicomio. Manicomio che, tanto per farci subito entrare in sintonia con... Baby Doll, è ovviamente gestito da una banda di sadici maniaci senza scrupoli. E fin qui tutto bene. La prima scena è infatti ottimamente girata e dà l'illusione di poter assistere ad un qualcosa di gradevole. Non avrei nemmeno nulla (o quasi) da obiettare sulla caratterizzazione dei loschi figuri che lavorano nel manicomio: finché posti come quelli, basati sull'assunto che vi siano esseri umani normali e altri meno normali, vengono descritti in questa maniera, io sono contento.
Poi però, il disastro!
Dopo un lunghissimo e penoso balletto con Carla Cugino e Oscar Isaac (che dopo questo film, per rifarsi, ha interpretato Standard in Drive) , Baby Doll conosce le altre pazienti del manicomio e subito diventa amica di Sweet Pea, Rocket, Blondie e Amber, e senza perdere un minuto di tempo spiega loro che ha intenzione di evadere uscendosene con un piano apparentemente infallibile. Snyder però a questo punto cambia registro ed entra in un suo trip personale che obbliga le nostre cinque eroine ad affrontare ogni prova immaginandosi una sorta di realtà alternativa. Non ci troviamo quindi più nel manicomio, ma nella fervida immaginazione di Baby Doll (e di Snyder) che, per evitare la lobotomizzazione, se la dovrà vedere con, in ordine sparso: giganteschi guerrieri umanoidi armati di spada e mitragliatrice, zombies nazisti, orchi cattivi, draghi e robot... e spero di non essermi dimenticato nulla.


Una cosa va subito detta: Snyder deve aver pensato e sviluppato il film in modo da poter piazzare il maggior numero di primi piani del bel faccino della Browning. Il resto è chiaramente secondario, altrimenti non si spiegherebbero tante cose, tipo il balletto già citato, il perché a un certo punto sbuchi fuori Scott Glenn ad aiutare le ragazze e altre decine di situazioni disordinatamente incollate una dietro l'altra. Ed è forse proprio questo il difetto maggiore del film: il disordine (subito dopo viene la noia; tanta, tanta noia). Dopo aver scritto una sceneggiatura complicata e indubbiamente difficile da trattare, Snyder prende spunto un po' qui e un po' là accontentandosi fondamentalmente di dimostrare – e riuscendoci solo a tratti - quanto ci sappia fare con la macchina da presa, senza mai preoccuparsi di dare un minimo di stile o di fascino al suo lavoro. I personaggi poi, diciamolo, sono ridicoli, e i loro dialoghi ancora peggio. Anche la fotografia, dopo i primi venti minuti, incomincia a stufare.
Alla fine ne viene fuori un film senza una vera e propria identità, confuso, ridondante, mai divertente e soprattutto privo di emozioni. E come se non bastasse, dopo tutto questo casino uno deve pure sorbirsi la morale finale. 


giovedì 27 ottobre 2011

Revanche


Di Götz Spielmann, 2008 (Austria), 121 min.
Con Johannes Krisch, Irina Potapenko, Andreas Lust, Ursula Strauss
Scritto da Götz Spielmann

Alex, un ex detenuto che lavora in una casa chiusa, ha una storia con Tamara, una delle prostitute del posto. I due innamorati, per cambiare vita e scappare dal gestore del bordello che intende trasferire Tamara in uno dei suoi appartamenti, decidono di rapinare la banca del villaggio con una pistola scarica. Durante la fuga però le cose vanno male e Robert, un poliziotto che passava di lì per caso, provando a sparare alle ruote della macchina sbaglia mira e uccide Tamara. Alex riesce comunque a scappare e si rifugia nella casa di suo nonno Hausner. Disperato per la morte della fidanzata, scopre dopo qualche giorno che Susanne, la donna che ogni tanto si prende cura di Hausner, è proprio la moglie del poliziotto che ha sparato a Tamara.
Il tema della vendetta, già affrontato in tutti i modi immaginabili, continua a suscitare interesse. In questo caso però non ci si concentra sulla pianificazione o sulla ricerca dell'appagamento a tutti i costi, né tantomeno si viene invitati a parteggiare per uno dei due protagonisti maschili.
Questo è un film sull'attesa, sull'elaborazione del dolore e su come poter riuscire a convivere con i propri sensi di colpa.
Sembra che Spielmann si sia quasi divertito nel dipingere una realtà così dura e drammatica, guardandosi bene dal giudicare o sentenziare e scegliendo di inserire ognuno dei suoi personaggi in un dolore apparentemente senza via d'uscita. Ci sarà anche chi, alla fine della storia, subirà una sorta di beffa e la rivincita – o seconda occasione - finirà quasi per passare in secondo piano: l'Austria di Spielmann non è certo l'America descritta nella maggior parte dei film di Hollywood. Al regista austriaco interessano gli aspetti più nascosti della storia, quelli interiori, e quindi: tempi lenti e massima ricerca del realismo. I rapporti fra Alex, Susanne e Thomas sono caratterizzati da dialoghi brevi e diretti. Contano le azioni, i gesti: le scene in cui Alex taglia la legna per sfogare la rabbia sono esemplari, così come la scena di sesso sul tavolo della cucina di Susanne.
Una gradevolissima sorpresa, priva di facili colpi di scena ed inutili spettacolarizzazioni ma ricca di tensione.

domenica 23 ottobre 2011

Polytechnique


Di Denis Villeneuve, 2009 (Canada), 77 min.
Con Maxim Gaudette, Sébastien Huberdeau, Karine Vanasse, Evelyne Brochu
Scritto da Jacques Davidts

Il 6 dicembre del 1989 Marc Lépine, uno studente venticinquenne misogino, entra nel politecnico di Montréal armato di fucile ed uccide a sangue freddo quattordici persone, ferendone altrettante. Le vittime sono tutte ragazze, e dei feriti solo quattro sono uomini. Venti minuti dopo aver dato inizio al massacro, Lépine si fa saltare la testa.


Non è facile portare sullo schermo storie di questo tipo senza eccedere in retorica e sentimentalismi. Qui Villeneuve ci riesce scegliendo più o meno lo stesso percorso intrapreso da Gus Van Sant per il suo Elephant, e cioè facendoci prima conoscere alcuni personaggi, con i loro pensieri e le loro voglie, e poi limitandosi, per almeno tre quarti di pellicola, ad una cronaca fredda e distaccata degli accadimenti, lasciando allo spettatore il compito di giudicare, elaborare, farsi un'idea...
Solo verso la fine viene dato spazio alle ripercussioni che una simile tragedia può avere su chi, avendola vissuta in prima persona, è riuscito a salvarsi (alcuni dei sopravvissuti si suicidarono in seguito al massacro), e solo nei primi minuti, attraverso la lettura dell'ultima lettera scritta da Lépine, viene spiegata una parte delle possibili motivazioni che si nascondono dietro quel gesto così assurdo.
Lépine escluso, le persone su cui si concentra Villeneuve sono essenzialmente tre: Valérie e Stéphanie, due amiche compagne di stanza, e Jean-François, un altro studente del Polytechnique. La quotidianità dei loro gesti – la scelta del vestito da mettere, un colloquio da superare, le fotocopie da fare prima che inizi il corso – si scontra con l'imprevedibile brutalità di un ragazzo che, freddo e determinato, dopo una breve dichiarazione sulla natura antifemminista del suo gesto pronunciata davanti ad un un gruppo di ragazze incredule, si aggira per i corridoi dell'istituto fucile in mano scatenando il panico.
Polytechnique è un film disturbante sia per la natura del soggetto che per il senso di disagio che lascia nello spettatore una volta terminata la visione. Le uccisioni, su cui il regista non indugia mai in modo particolare ma che decide invece di riprendere in modo diretto e veloce, colpiscono per il loro realismo.
All'epoca seguirono inevitabilmente numerosi dibattiti sull'uso delle armi da fuoco, sulle condizioni della donna e anche sul modo in cui alcune associazioni femministe furono accusate di voler approfittare dell'accaduto. Villeneuve, vent'anni dopo, sceglie saggiamente di limitarsi ai fatti. Ben scritto e ottimamente diretto.

lunedì 17 ottobre 2011

Drive


Di Nicolas Winding Refn, 2011 (USA), 100 min.
Con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Christina Hendricks, Ron Perlman, Albert Brooks
Scritto da Hossein Amini, tratto dal libro di James Sallis

È difficile scrivere qualche riga su un film come Drive. Principalmente per due motivi: il primo è che praticamente tutti i blog che seguo ne hanno già parlato con recensioni più interessanti, pensate e meno banali di quella che seguirà; il secondo è che il film di Refn, lo dico subito, è per me un puro capolavoro. Ad ogni modo, per tornare ad aggiornare più o meno regolarmente il blog, questo mi sembra il film perfetto, e quindi...
Con Valhalla Rising era stato amore a prima vista. I silenzi, i ralenti, una regia spettacolare tanto ricercata quanto naturale... Poi, recuperando Bronson, ho avuto la conferma del fatto che Refn è uno bravo, ma bravo davvero: come ce ne sono pochi. Infine, non molto tempo prima di andare al cinema a vedere Drive (primo film che vedo al cinema dopo mesi; ormai sono disposto a tutto pur di non vederli doppiati...) mi sono visto la trilogia di Pusher: stupenda pure quella. Le aspettative, inutile dirlo, erano quindi molto alte.


Driver (e non The Driver, a cui è inevitabile pensare) è un meccanico che nel tempo libero fa sia lo stuntman per Hollywood che l'autista nelle rapine. Freddo, distaccato, solitario, il suo unico amico sembra essere Shannon, il titolare dell'officina in cui lavora. Un giorno, tramite alcune conoscenze di Shannon, gli viene offerta l'opportunità di fare il pilota per una scuderia nascente. Nel frattempo però conosce Irene, la sua vicina di casa, il cui marito appena uscito di prigione lo coinvolge in una rapina che si rivelerà una trappola.
Drive, ammesso che uno abbia voglia di catalogarlo, è una sorta di noir sentimentale d'azione; adrenalinico, romantico, riflessivo, ipnotico... un film completo, verrebbe da dire. È inoltre il primo film in cui Refn, trascinato nel progetto da Ryan Gosling, si affida ad una sceneggiatura scritta da altri. Eppure la sua presenza si vede pesantemente, in uno stile che sembra una via di mezzo fra il realismo della trilogia di Pusher e la ricerca estetica di Valhalla Rising. È lui che trasforma un soggetto inizialmente pensato per Neil Marshall (che per quanto mi stia simpatico non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di uscirsene con un film così) e Hugh Jackman in un affascinante prodotto tanto innovativo quanto pieno di rimandi ad un cinema più classico e asciutto. D'altronde i primi quindici minuti sono chiari: si inizia con un lungo inseguimento basato sulle attese e sulla tensione crescente più che su una fuga a tutta velocità con speronamenti e testacoda. La scena è ripresa in gran parte dall'interno della macchina di Driver che, stuzzicadenti in bocca, rimane impassibile fino alla fine. Poi arrivano i titoli di testa, con una spiazzante canzone in stile anni '80, e già si capisce che Drive sarà un film speciale.


La storia, semplice e lineare, presenta dei personaggi simbolici. Nessuno, a parte Driver e Irene, è particolarmente approfondito eppure ognuno di loro funziona alla perfezione: l'amico, il boss, il cattivo... Per Gosling e la Mulligan il discorso è un po' diverso: due personaggi agli antipodi (tanto pura ed innocente lei quanto freddo e all'occorrenza spietato lui) che, per forza di cose, si conoscono ed innamorano con tempi degni di un film sentimentale. Un innamoramento fatto di sguardi, silenzi e mani sfiorate che non passa mai in secondo piano, ma su cui è costruita una buona parte del film.
Ma quello che più colpisce è la bravura di un regista che passa con disarmante maestria da scene tenere e poetiche come quella in cui Driver e il bambino si guardano negli occhi senza dire nulla per una decina di secondi, ad altre di un'efferata violenza. E mai, nemmeno per un secondo, si ha l'impressione di assistere ad un qualcosa di forzato o troppo ricercato.
Fantastico anche l'uso frequente del ralenti, che se gestito come in questo caso (stesso discorso per Valhalla Rising) diventa davvero un'arma in più.
Imperdibile. L'unico difetto è stato il doppiaggio da film porno, ma il doppiaggio, si sa, è sempre dannoso.
I cinque “cuori” sono esagerati? Non lo so... non credo. Ora come ora mi viene da metterlo fra i migliori film degli ultimi dieci anni.