lunedì 31 gennaio 2011

Il discorso del re


The King's speech
Di Tom Hooper, 2010 (UK, Australia, USA)
Con Colin Firth, Helena Bonham Carter, Geoffrey Rush, Derek Jacobi, Michael Gambon, Guy Pearce
Scritto da David Seidler
Montaggio di Tariq Anwar
Fotografia di Danny Cohen
Musiche di Alexandre Desplat
Durata: 118 min.

Provando a mettere da parte la mia avversione verso l'esaltazione nei confronti di chi governa e che quindi esercita un potere su chi è governato, il film parla di questo: re Giorgio VI è balbuziente. Alla fine però vince le proprie paure e riesce a tenere un discorso senza farsi prendere dal panico. Applausi e popolo festante. Intanto però scoppia la seconda guerra mondiale. Ma che problema c'è? Tanto nel nuovo palazzo reale le principessine hanno una stanza bella grande in cui mettere i cavallucci a dondolo.
Il fatto che un film storico sia ambientato in un'epoca particolarmente e gravemente significativa, non obbliga di certo il regista o lo sceneggiatore a realizzare un prodotto drammatico che si focalizzi principalmente sui fatti che ora leggiamo nei libri di storia. La decisione di concentrarsi sui problemi personali del re è quindi rispettabilissima, il problema è che il film non si mantiene sempre coerente.
C'è l'accademia ma non l'energia, la fredda solidità formale che nasconde il carattere. C'è qualche bel passaggio ma non c'è una storia (sul fatto che il “come” conti più del “cosa” per quanto mi riguarda non ci sono dubbi, il problema è che in questo caso non mi ha colpito né l'uno né l'altro), ci sono gli attori ma non dei personaggi solidi a cui possano aggrapparsi. Lionel (Rush) offre parecchi spunti interessanti, ma il suo essere così poco formale davanti a una figura “importante” come quella del re, dopo qualche scena non fa più nemmeno effetto, e il momento provocatorio (?) del “fottifottifotti merdamerdamerda” non è di certo memorabile.
Ho trovato la sceneggiatura priva di interesse, senza mordente, e a più riprese si sfocia nella noia. Si dà importanza ad elementi che poi vengono dimenticati, e il regista sembra il primo a non sapere dove andare a parare. Deve far ridere? Forse commuovere? Alla fine fa un po' tutt'e due le cose, sfornando il classico prodotto che fa impazzire di gioia quelli dell'Academy.
C'è pure la solita campagna anti-tabacco, più politicamente corretto di così non si poteva fare. A febbraio pioveranno Oscar.

Daunbailò


Down by law
Di Jim Jarmusch, 1986 (USA, Germania Ovest)
Con Tom Waits, John Lurie, Roberto Benigni, Ellen Barkin, Nicoletta Braschi
Scritto da Jim Jarmusch
Montaggio di Melody London
Fotografia di Robby Müller
Musiche di John Lurie
Durata: 107 min.

Un magnaccia, un dj radiofonico appena lasciato dalla compagna e un turista italiano si ritrovano a condividere la stessa cella. Fra i tre nasce una strana amicizia, e dopo un po' troveranno il modo di evadere.
Praticamente in tutta la sua filmografia Jarmusch si è interessato alle difficoltà della comunicazione, e molti suoi film sono infatti girati in più di una lingua. Pensando ad esempio ai dialoghi fra Ghost Dog e il suo amico Raymond viene però da dire che spesso e volentieri questa caratteristica non è da intendere come un limite, quanto come una specie di valore aggiunto. Down by law non fa eccezione, perché se è vero che le differenze culturali fra i tre personaggi sono evidenti, è innegabile che proprio grazie a esse si crea quell'atmosfera tanto cara all'indipendente Jarmusch. Un cinema fatto di dialoghi e silenzi in cui la trama conta relativamente poco. Prima di tutto vengono i personaggi e le strane ed improbabili situazioni in cui sembrano perdersi, lasciandosi trascinare dagli eventi come in una specie di improvvisazione. Eppure si adattano senza mai lamentarsi, non sono vittime.
L'ironia sempre presente nei lavori di Jarmusch è qui ancora più accentuata, soprattutto per merito di Roberto (Benigni), italiano spaesato e ottimista in contrasto col carattere più chiuso e riservato di Zack (Waits) e Jack (Lurie). I due americani, che all'inizio non si sopportano, lo prendono bonariamente in giro, ma fra i tre nasce comunque un bel rapporto.
Bella la colonna sonora di Lurie, ma ci sono anche un paio di bellissime canzoni di Waits (tratte da Rain Dogs), tanto per aggiungere qualcosa all'atmosfera da whiskey e sigarette.
Un altro piccolo cult di J. J.. Lento, spontaneo, romantico e divertente. Da vedere.

giovedì 27 gennaio 2011

Dobermann


Di Jan Kounen, 1997 (Francia)
Con Vincent Cassel, Monica Bellucci, Tchéky Karyo, Pascal Demolon, Romain Duris, Gaspar Noé, Marc Caro
Scritto da Joël Houssin
Montaggio di Bénédicte Brunet, Eric Carlier
Fotografia di Michel Amathieu
Musiche di Schyzomaniac, Jean-Jacques Hertz, Philippe Mallier, François Roy
Durata: 103 min.

Un commissario psicopatico e violento è sulle tracce di una banda di rapinatori comandata dal “dobermann” Vincent Cassel.
Dopo una serie di corti visionari e allucinati fra cui spicca Le dernier chaperon rouge (L'ultimo cappuccetto rosso) con la Béart, Kounen esordisce al cinema con un fumettone violento in cui l'estetica ha decisamente la meglio sui contenuti. La trama e i personaggi contano solo fino a un certo punto, quello che davvero interessa al regista è lo stile. Telecamera in movimento, montaggio veloce, violenza, sparatorie e musica a tutto volume. Lo si era capito già da Gisèle Kérozène, il suo primo (bruttino) cortometraggio del 1989, che Kounen avrebbe basato gran parte della sua carriera su un dinamismo visivo che, almeno fino a 99 francs, non ha più abbandonato. Forse con Coco Chanel & Igor Stravinsky le cose sono un po' cambiate, ma ancora non l'ho visto.
Dobermann è un western moderno, c'è la banda di criminali, il gruppo di poliziotti ancora più cattivi, inseguimenti, duelli... Non stupisce il fatto che dopo questo film il regista si sia dedicato a Blueberry, progetto legato al suo documentario sullo sciamanesimo distribuito nello stesso periodo.
È stato spesso criticato per la violenza esagerata, lo stile frenetico e la mancanza di una trama approfondita, ma Kounen si è giustificato dicendo che il suo lavoro era da intendere come un fumetto, e che poteva quindi permettersi di esagerare senza apparire ridicolo.
E in effetti viene da dargli ragione. Il ruolo di Dobermann sembra fatto su misura per Cassel. Convincenti anche Karyo e la Bellucci. La regia, piaccia o meno, è innegabilmente spettacolare. A volte può risultare un po' fastidioso, ma va preso per quello che è. Io mi sono divertito.

Stylish


Ringrazio subito il dudeist Mr Ford per questo premio poco meritato ma tanto apprezzato. :D

Sono qui su blogger da poco, quindi continuo la catena limitandomi a fare una lista dei blog stilosi che ultimamente ho incominciato a seguire e che secondo me si meriterebbero il premio, anche se per ora commento più o meno regolarmente solo su 2 o 3 di questi. Sono più di dieci, ma alcuni di loro hanno già ricevuto l'award quindi va bene così.
Spero di fare cosa gradita. Ad ogni modo, ammesso che passiate di qui, potete sempre far finta di niente. :D

Abituarsi alla fine.
Bar del Castagno
Cotone - e se diventa intelligente! - Catone
el medio oscenico
first impressions
Giulia Passione
Italian Samizdat
L'Unico.
le luci della sera
pensieri cannibali
Scaglie
Tell me a tale
The cameRa eye
Voglio... avrò... se non qui, in un altro luogo

e poi c'è il già citato blog di Ford.

martedì 25 gennaio 2011

Tre passi nel delirio


Histoires extraordinaires
Di Roger Vadim, Louis Malle, Federico Fellini, 1968 (Francia/Italia)
Con Jane Fonda, Brigitte Bardot, Alain Delon, Terence Stamp, Peter Fonda, Salvo Randone
Scritto da Roger Vadim, Pascal Cousin, Daniel Boulanger (Metzengerstein); Louis Malle, Clement Biddle Wood, Daniel Boulanger (William Wilson); Federico Fellini, Bernardino Zapponi (Toby Dammit). Tratto dai racconti Metzengerstein, William Wilson e Non scommettere la testa col diavolo di Edgar Allan Poe
Montaggio di Hélène Plemiannikov (Metzengerstein); Franco Arcalli, Suzanne Baron (William Wilson); Ruggero Mastroianni (Toby Dammit)
Fotografia di Claude Renoir (Metzengerstein); Tonino Delli Colli (William Wilson); Giuseppe Rotunno (Toby Dammit)
Musiche di Jean Prodromidès (Metzengerstein); Diego Masson (William Wilson); Nino Rota (Toby Dammit)
Durata: 121 min.

Film diviso in tre episodi tratti da altrettanti racconti di Poe. Nel primo Roger Vadim dirige i fratelli Fonda narrando l'improvviso amore della crudele Frederique de Metzengerstein per un cugino che fino ad allora aveva disprezzato. Quando questi la respinge, per vendetta la donna brucia le stalle della sua tenuta, provocandone la morte. Un misterioso e spiritato cavallo nero sopravvissuto all'incendio si occuperà della vendetta.
Nel secondo Malle narra la storia del crudele William Wilson, ossessionato dalla presenza di un uomo identico a lui in tutto e per tutto, anche nel nome, e che sembra farsi vivo per contrastarlo ogni qualvolta lui intenda compiere un'azione malvagia. Questa eterna rivalità non potrà che risolversi in un duello.
Nel terzo invece Fellini ambienta il racconto in una Roma contemporanea allucinata e surreale. L'attore inglese Toby Dammit arriva in Italia per recitare in uno spaghetti western fondato sui valori cattolici, ma già durante l'intervista televisiva che segue il suo arrivo le cose incominciano a prendere una brutta piega. L'attore, perseguitato e al contempo affascinato da strane e inquietanti visioni, scapperà sulla sua nuova Ferrari verso l'ignoto.
Le differenze fra gli stili dei tre segmenti sono notevoli. Potrebbero tutti essere visti singolarmente, e a guadagnarci di più sarebbe probabilmente Toby Dammit di Fellini. Ma le atmosfere angoscianti e oniriche dei tre episodi in un certo senso si completano a vicenda, e il progetto funziona benissimo.
Mi ha stupito leggere che Metzengerstein sia stato il più criticato. Sarà che vedendo la Fonda in quei costumini diretta da Vadim è inevitabile pensare al fascino di Barbarella, ma oltre a questo l'episodio mi è comunque piaciuto molto. In certi punti è forse un po' ripetitivo, ma gode di un'ottima e inquietante colonna sonora e di un'ambientazione da b movie che Vadim sfrutta nel migliore dei modi.
Malle affronta invece il suo compito in modo più classico. Il regista ricostruisce la storia grazie ad una serie di flashbacks legati alla confessione di Wilson con un prete che lo prende per pazzo. Il tema del doppio è reso bene, la recitazione di Delon è abbastanza tesa e sentita da risultare credibile, e nonostante qualche piccola caduta di stile anche questo episodio risulta tutto sommato godibile.
Poi c'è Fellini, che dei tre è quello che più si permette di andare oltre, allontanandosi maggiormente dal racconto di Poe a cui si ispira. Il risultato è grottesco e angosciante, a tratti anche ironico. Giusto metterlo per ultimo, più che altro a causa dello stile intenso della regia e della ricca e straniante fotografia di Rotunno.
Alcuni consigliano di saltare i primi due episodi e dedicarsi da subito a Toby Dammit. Per me sarebbe un grosso errore. Niente di memorabile, sia chiaro, ma una visione la vale tutta.

lunedì 24 gennaio 2011

Bande à part


Di Jean-Luc Godard, 1964 (Francia)
Con Anna Karina, Samy Frey, Claude Brasseur, Danièle Girard, Louisa Colpeyn
Scritto da Jean-Luc Godard, tratto dal romanzo "Fool's Gold" di Dolores Hitchens
Montaggio di Françoise Collin, Dahlia Ezove, Agnès Guillemot
Fotografia di Raoul Coutard
Musiche di Michel Legrand
Durata: 95 min.

Franz e Arthur (Rimbaud?) sono entrambi innamorati di Odile, una giovane studentessa di lingue. Quando lei confessa che nella villa in cui abita con sua zia è nascosta una grossa somma di denaro, i due progettano di impossessarsene. Sarà proprio Odile ad aiutarli, ma non tutto andrà per il verso giusto.
Rispetto ad altri film dello stesso periodo di Godard, Bande à part è sicuramente più canonico. Questo non impedisce al regista di interrompere la narrazione quando più gli aggrada, di far osservare agli attori un minuto di silenzio – che in realtà dura un po' meno - semplicemente perché non hanno niente di interessante da dirsi o di parlare direttamente allo spettatore (la voce fuori campo è la sua) dei sentimenti dei personaggi, magari divertendosi a far loro visitare di corsa il Louvre battendo di qualche secondo il record mondiale di velocità. Ad ogni modo la sceneggiatura si concentra principalmente sulle vicende dei tre scanzonati, teneri, spensierati, disillusi e disincantati protagonisti, senza particolari divagazioni come in molti altri suoi lavori della nouvelle vague.
Eppure il fascino non ne risente affatto, e il tocco del regista è come sempre riconoscibile, con quella specie di umorismo presente anche nelle scene più drammatiche, la voglia di vivere, le scene cantate, i dialoghi assurdi...
Meno ambizioso di altri suoi capolavori, si potrebbe quasi dire che qui Godard non fa altro che mettere in scena una semplice storiella di furti, amori e tradimenti, uno di quei film di serie b a cui due anni prima aveva pure dedicato Questa è la mia vita, e che infatti finisce così, “come un romanzo a buon mercato”.

venerdì 21 gennaio 2011

Cinque pezzi facili


Five easy pieces
Di Bob Rafelson, 1970 (USA)
Con Jack Nicholson, Karen Black, Billy Green Bush, Lois Smith, Susan Anspach
Scritto da Adrien Joyce (Carole Eastman), Bob Rafelson
Montaggio di Christopher Holmes, Gerald Shepard
Fotografia di László Kovács
Durata: 98 min.

Robert rinnega le sue origini e si trasferisce in California per fare l'operaio. Si stabilisce con Rayette, trascorrendo la maggior parte del tempo con lei e altri due amici che però non riescono a colmare il vuoto che sente dentro. Un giorno va a trovare la sorella pianista, che gli parla del padre malato. Robert decide quindi di andare a trovarlo, portando con sé Rayette, che nonostante il suo atteggiamento indisponente non riesce a fare a meno di lui.
Cinque pezzi facili è sicuramente legato all'epoca in cui è uscito, ma l'insoddisfazione di Robert, i suoi dubbi e l'indifferenza verso la società che lo circonda sono ancora validi quarant'anni dopo. Forse ancora di più.
Robert ha quello che gli serve ma non quello che vuole; quello che vuole non lo sa nemmeno lui. Continua a cercare senza sapere dove, si lascia guidare dalle circostanze e dagli amici, ma poi li lascia e fugge via, deluso, magari anche incazzato. Come nella scena con la cameriera: lui chiede qualcosa di semplice, ma che non si può avere perché non è scritto nel menu, non è previsto. E allora reagisce. Oppure se ne frega, come quando si reca al lavoro col suo amico Elton. I due rimangono bloccati nel traffico, Robert scende dalla macchina e si mette a suonare il piano su un camion poco davanti a loro, senza che l'autista nemmeno se ne accorga, e quando il camion riparte e esce dall'autostrada lui non ci bada, rimane lì a suonare, lasciando il suo amico solo in mezzo al traffico.
È un film sul disagio e l'inadeguatezza in cui la critica avviene senza che si punti il dito contro qualcosa o qualcuno, eppure la si avverte, e finisce per diventare opprimente. Il personaggio di Robert è studiato nei minimi particolari, vittima di un qualcosa di indefinito a cui si ribella senza vincere né perdere.
Se anche il film non dovesse piacere, c'è Jack Nicholson che dà lezioni di recitazione, quindi non si rimane comunque delusi.

giovedì 20 gennaio 2011

Ondine

Di Neil Jordan, 2009 (Irlanda, USA)
Con Colin Farrell, Alicja Bachleda, Stephen Rea, Tony Curran
Scritto da Neil Jordan
Montaggio di Tony Lawson
Fotografia di Christopher Doyle
Musiche di Kjartan Sveinsson (Sigur Rós)
Durata: 111 min.

Un pescatore irlandese divorziato e con la figlia costretta su una sedia a rotelle a causa di una disfunzione renale, trova nella sua rete una giovane donna in fin di vita. Lui e la figlia si convincono che sia una selkie, una misteriosa creatura della mitologia nordica.
Piccolo film romantico sul rapporto fra realtà e fantasia, uscito in Italia direttamente per il mercato home video. Jordan abbandona il rigore di alcune sue produzioni passate e si lascia andare, dedicandosi ad una storia leggera al limite del fiabesco.
Ci si aspetta parecchio da questo film, dopo aver visto i primi cinque minuti, e per una buona ora le promesse vengono mantenute. La storia scorre semplice e veloce, trainata da un Farrell come sempre a proprio agio e da una sceneggiatura ben calibrata con poche, pochissime pretese. Le situazioni più drammatiche come la malattia della figlia vengono affrontate senza calcare troppo la mano, e l'atmosfera è davvero gradevole, anche grazie alle musiche di Sveinsson e di Lisa Hannigan.
Purtroppo però arriva un momento in cui il film cambia tono, e la spensieratezza lascia spazio ad una tensione di cui non si sentiva proprio il bisogno, priva sia di efficacia che di interesse. Certo Jordan è comunque bravo a fare in modo che non stoni eccessivamente col resto della pellicola, ma personalmente ho trovato la parte finale meno curata rispetto alla prima. Nonostante la disorganizzazione finale, nel suo piccolo è un buon prodotto, che si lascia guardare senza troppi problemi.

mercoledì 19 gennaio 2011

Hereafter


Di Clint Eastwood, 2010 (USA)
Con Matt Damon, Cécile De France, Bryce Dallas Howard, Thierry Neuvic, Richard Kind
Scritto da Peter Morgan
Montaggio di Joel Cox, Gary Roach
Fotografia di Tom Stern
Musiche di Clint Eastwood
Durata: 129 min.

Un operaio di San Francisco, una giornalista di Parigi e un ragazzino londinese. Tre personaggi diversi fra loro ma accomunati da uno stretto legame con la morte. Soli, disorientati, come alla ricerca di un qualcosa di inafferrabile che riesca a definire la loro vita, vanno avanti ciascuno per la sua strada fino al momento in cui, inevitabilmente, finiranno per incrociarsi.
Negli ultimi anni non sono certo mancati drammoni sentimentali su sensitivi, medium, fantasmi erranti e anime perse, sia in forma cinematografica che televisiva. Evidentemente Clint Eastwood ha sentito il bisogno di mettere un po' d'ordine uscendosene con un film che ti resta dentro, delicato, quasi impercettibile. Progettato e realizzato in modo classico, senza trucchi, inganni o particolari azzardi, è proprio nella sua estrema semplicità stilistica e narrativa che riesce a rivelarsi in tutta la sua forza.
Degli ultimi lavori di Eastwood è forse quello con meno pretese. Il regista non vuole imporre un determinato punto di vista, né portare lo spettatore a credere fermamente a una vita dopo la morte. Non ci sono particolari credenze o religioni, che in un certo senso vengono addirittura – e fortunatamente – ridicolizzate. Qui si va ben oltre, e alla fine rimane una sensibile rappresentazione della fragilità dei protagonisti, e quindi un po' di tutti noi. In questo senso mi ha molto colpito il cambiamento di Marie, che da giornalista in carriera interessata a politica e attualità, e che descrive Mitterrand come il“tonton” (zio) di Francia, passa a parlarne negativamente, definendolo come una specie di bugiardo manipolatore, vedendo alla fine le cose per quelle che sono, e concentrandosi più sulle proprie esperienze intime e personali che non su quello che la società vuole farci passare come “importante”, propinandocelo giorno dopo giorno.
Ripeto, un film apparentemente semplice che si basa su meccanismi già visti e rivisti, eppure dannatamente efficace. Altro punto a favore: mai, in nessuna scena, si cade in facili sentimentalismi cercando la lacrimuccia dello spettatore.

martedì 18 gennaio 2011

L'odio


La haine
Di Mathieu Kassovitz, 1995 (Francia)
Con Vincent Cassel, Saïd Taghmaoui, Hubert Koundé
Scritto da Mathieu Kassovitz
Montaggio di Mathieu Kassovitz, Scott Stevenson
Fotografia di Pierre Aïm
Musiche di Assassin
Durata: 96 min

Dopo una notte di scontri con la polizia Vinz ritrova la pistola persa da uno degli agenti in servizio, promettendo di usarla nel caso in cui un loro amico ricoverato d'urgenza in ospedale dovesse morire.
Per descrivere la forza de La Haine basterebbe dire che la sera della sua proiezione a Cannes, i poliziotti che si occupavano del servizio d'ordine girarono le spalle alla troupe del film in segno di protesta. Che Kassovitz abbia addirittura preferito vivere questa scena in prima persona piuttosto che ricevere qualche giorno dopo il premio come miglior regista della manifestazione?
Ovviamente il film va ben oltre l'atto d'accusa alla polizia, a cui sarebbe sbagliato attribuire le responsabilità maggiori delle situazioni descritte, e si propone di analizzare senza censure le condizioni di vita nelle banlieues.
Vinz, Saïd e Hubert sono nati e cresciuti in mezzo alla violenza e alla diffidenza da parte delle autorità, ma nella pellicola non si parla tanto delle cause quanto delle conseguenze di un sistema pieno di falle e contraddizioni.
A partire dalla mattina che segue gli scontri, passiamo una giornata in compagnia dei tre protagonisti, con la loro voglia di reagire e cambiare vita che si scontra con la consapevolezza di non avere le possibilità per farlo, diventando quindi passiva accettazione. Si va avanti proprio come nella storiella raccontata all'inizio, quella dell'uomo che cade da un palazzo e che ad ogni piano ripete a se stesso “fin qui tutto bene, fin qui tutto bene...”. Prima o poi però arriva l'impatto.
Film difficile da dimenticare, diretto con maestria e originalità da un Kassovitz appena ventottenne. Da allora non ha più saputo ripetersi a questi livelli. Sarebbe stato interessante vedere Babylon A.D. senza le pesanti intromissioni della casa di produzione, che secondo il regista avrebbe influito direttamente durante la realizzazione impedendogli di girare il film secondo i suoi desideri.

domenica 16 gennaio 2011

The wicker man


Di Robin Hardy, 1973 (UK)
Con Edward Woodward, Christopher Lee, Britt Ekland, Diane Cilento
Scritto da Anthony Shaffer, tratto dal libro di David Pinner
Montaggio di Eric Boyd-Perkins
Fotografia di Harry Waxman
Musiche di Paul Giovanni
Durata: 88 min. / 100 min. (2001 director's cut)

Un agente di polizia riceve da un'isola al largo della Scozia una lettera anonima in cui gli viene chiesto di indagare sulla scomparsa di una dodicenne. Una volta arrivato sul posto viene però disorientato dal comportamento degli abitanti, i quali sostengono che la bambina sia morta o che addirittura non sia mai esistita. Dopo essersi reso conto di non poter contare sull'aiuto degli isolani, entrerà in contatto con gli strani riti pagani dell'isola, fra danze e sacrifici umani.
L'inizio è lento, e dopo i primi venti minuti ancora non ci si rende conto di trovarsi di fronte a un thriller psicologico terribile e angosciante come si rivelerà poi nella straordinaria parte finale. Questo progressivo aumentare di tensione e violenza è forse ciò che più ha contribuito a fare entrare The Wicker man nella storia del cinema horror. Il film deve molto della sua atmosfera anche alla fotografia ben curata e alle particolari scene musicali dei riti pagani. Colpisce pure la regia di Hardy, in certi momenti davvero ispirata e suggestiva.
Dopo il suo completamento è stato vittima di numerose censure. Qualche anno dopo, grazie a una copia della pellicola conservata da Roger Corman, è stato possibile aggiungere alcune delle scene tagliate. Io ho visto la versione director's cut con ulteriori aggiunte (probabilmente quelle dalla qualità video nettamente inferiore) uscita in dvd nel 2001, che poi è quella che più si dovrebbe avvicinare al risultato finale voluto da Hardy.
Bellissimo, da consigliare anche ai non amanti del genere.

sabato 15 gennaio 2011

Carrie - Lo sguardo di Satana


Carrie
Di Brian De Palma, 1976 (USA)
Con Sissy Spacek, Piper Laurie, Nancy Allen, William Katt, Amy Irving, John Travolta
Scritto da Lawrence D. Cohen, tratto dal libro di Stephen King
Montaggio di Paul Hirsch
Fotografia di Mario Tosi
Musiche di Pino Donaggio
Durata: 98 min.

Impacciata, riservata e presa in giro dai compagni di scuola, Carrie è una ragazzina la cui vita è pesantemente condizionata dal comportamento ossessivo della madre. Quando il figo della scuola la invita al famoso ballo di fine anno, si illude di aver finalmente trovato un po' di pace. Ovviamente non sarà così, ma la vendetta sarà tremenda.
Nel suo periodo più produttivo De Palma sforna un horror di classe, e forse anche uno dei suoi film più riusciti. Parte subito con un memorabile piano sequenza nello spogliatoio femminile della scuola, e già si notano quelle che saranno le caratteristiche principali del film: ironia alternata a momenti decisamente più drammatici per tutto quello che Carrie è costretta a subire (finché a subire non saranno gli altri), e tanto sangue. Dopo la scena iniziale, De Palma costruisce un thriller psicologico in cui la tensione sale lenta ma inesorabile, e siamo costretti a sopportare insieme a Carrie i soprusi dei suoi compagni e della madre bigotta e paranoica, fino ai primi segni di ribellione e indipendenza, che in un finale esageratamente violento e catartico troveranno il loro massimo sfogo.
Come al solito - anche nel caso di pellicole meno riuscite - il lavoro di De Palma alla regia è impressionante. Il suo tocco si nota in ogni inquadratura, e in mano a qualcun altro il risultato finale sarebbe stato ben diverso. Un classico del cinema horror, da vedere assolutamente.

venerdì 14 gennaio 2011

Shakespeare a colazione


Withnail & I
Di Bruce Robinson, 1987 (UK)
Con Richard E. Grant, Paul McGann, Richard Griffiths, Ralph Brown
Scritto da Bruce Robinson
Montaggio di Alan Strachan
Fotografia di Peter Hannan
Musiche di David Dundas, Rick Wentworth
Durata: 107 min.

Withnail e Marwood sono amici per la pelle. Attori disoccupati perennemente alla ricerca di alcol, condividono lo stesso appartamento freddo e sporco a Camden Town. Fra crisi di ansia e strani deliri riescono ad ottenere dallo zio di Withnail la chiave della sua casa in campagna, dove intendono stabilirsi per un po' per sfuggire allo stress della città.
Ambientata nell'Inghilterra del '69 e scritta da Robinson basandosi proprio sulla sua vita a Londra di quegli anni (lui sarebbe Marwood), Withnail & I è una commedia amara dal ritmo abbastanza lento, sostenuta da una sceneggiatura divertente e assurda e dalla recitazione un po' teatrale e sopra le righe dei due protagonisti. Di culto in patria, risulta forse meno affascinante per uno straniero che non sia cresciuto in Inghilterra, ma gli ingredienti per piacere ci sono tutti. Si passa dai due amici che devono cucinare un pollo (vivo) e combinano un pasticcio, alle disincantate considerazioni sulla vita del Marwood-narratore, che rende partecipe lo spettatore delle sue paranoie. L'atmosfera leggera e spensierata (ma non troppo) del film trova poi un punto d'arrivo più serio nella parte finale, che riesce a dare un altro valore a tutte le disavventure vissute fino a quel momento. Una riflessione su un'epoca - “il più grande decennio della storia dell'umanità”, come viene definito dall'amico sempre strafatto di Withnail e Marwood – girata con pochi mezzi ma scritta e messa in scena in modo intelligente e senza sbavature. Fra i produttori figura anche George Harrison.

I mercenari - The expendables


The expendables
Di Sylvester Stallone, 2010 (USA)
Con Sylvester Stallone, Jason Statham, Jet Li, Dolph Lundgren, Mickey Rourke, Eric Roberts, Terry Crews, Giselle Itié
Scritto da Sylvester Stallone, Dave Callaham
Montaggio di Ken Blackwell, Paul Harb
Fotografia di Jeffrey L. Kimball
Musiche di Brian Tyler
Durata: 103 min.

Un gruppo di mercenari viene incaricato di eliminare il dittatore di Vilena, un'isola fittizia dell'America centrale. Fortunatamente la trama e le implicazioni politiche non contano nulla, è tutta una grande scusa per omaggiare gli action movies anni '80 e '90. Per farlo Stallone mette insieme una buona parte degli attori più tamarri di quegli anni, dando ad alcuni di loro anche solo due o tre battute per fare la comparsata. Ci sono delle assenze pesanti, ma va bene così.
Si dice che Van Damme abbia rifiutato il ruolo a causa della mancanza di profondità del suo personaggio (!), e Snipes non poteva lasciare gli Stati Uniti per problemi legali. Ma ce ne sarebbero anche altri.
È un film vecchio stile, volutamente riempito di alcune scene inutili e stereotipate, pieno di violenza (l'attacco aereo e il combattimento finale nel palazzo valgono l'intero film), esplosioni, frasi fatte...
Funziona, ma fino a un certo punto. Stallone come regista non mi piace particolarmente, e ho trovato alcuni dialoghi un po' forzati. La pellicola finisce per salvarsi grazie al fascino un po' nostalgico del cast, all'atmosfera esplosiva e al fatto che non cerca minimamente di prendersi sul serio, ma devo ammettere che mi sarei aspettato qualcosina in più. Aspettiamo il secondo, previsto per il 2012.

giovedì 13 gennaio 2011

Buried - Sepolto


Buried
Di Rodrigo Cortés, 2010 (Spagna, USA, Francia)
Con Ryan Reynolds, Samantha Mathis, Stephen Tobolowsky, José Luis García Pérez
Scritto da Chris Sparling
Montaggio di Rodrigo Cortés
Fotografia di Eduard Grau
Musiche di Victor Reyes
Durata: 95 min.

Un camionista americano di servizio in Iraq si risveglia imbavagliato in una bara. Servendosi di un telefonino mezzo scarico lasciatogli dai sequestratori (come mai lo hanno legato se volevano che lo usasse?) proverà a chiamare amici, parenti, conoscenti e autorità varie per farsi salvare e ottenere il pagamento del riscatto.
Una critica alla politica guerrafondaia e capitalista delle "democrazie" occidentali? O semplicemente un tentativo di farci vivere novanta minuti di claustrofobica tensione nei panni di una vittima innocente rinchiusa in una bara? In ogni caso il film risulta inconcludente, e sa tanto di occasione sprecata.
Interamente ambientato nel buio appena squarciato da uno zippo o da una torcia malfunzionante, si basa sull'esasperazione di Conroy e sui suoi dialoghi frammentati con gente che vorrebbe aiutarlo ma non può, o con altra che più semplicemente se ne frega (come il rappresentante della ditta per cui Conroy lavora, che a pochi minuti dalla probabile morte del suo interlocutore si preoccupa di fargli registrare al telefono una dichiarazione che metta al sicuro la società da ogni eventuale responsabilità). Si nota anche qualche colpo di scena qua e là, come l'apparizione di un serpente e due o tre esplosioni... E poi c'è l'eterna lotta contro la batteria del cellulare. Insomma, niente di particolarmente solido su cui appoggiarsi per rendere interessante il film.
C'è comunque da ammettere che non ci si annoia più di tanto; i novanta minuti per fortuna passano relativamente in fretta.

mercoledì 12 gennaio 2011

Lo spirito dell'alveare


El espíritu de la colmena
Di Victor Erice, 1973 (Spagna)
Con Fernando Fernán Gómez, Teresa Gimpera, Ana Torrent, Isabel Tellería
Scritto da Victor Erice, Ángel Fernández Santos, Francisco J. Querejeta
Montaggio di Pablo González del Amo
Fotografia di Luis Cuadrado
Musiche di Luis de Pablo
Durata: 97 min

In un piccolo villaggio spagnolo arriva il cinema ambulante con una copia del Frankenstein di Whale. Nella grande sala adibita alla proiezione sono presenti tutti i bambini del luogo e anche qualche adulto. La piccola Ana, particolarmente colpita dal film, inizierà in seguito a interessarsi al tema della morte, spinta dalle bugie della sorella maggiore e dai racconti del padre, arrivando a convincersi che lo spirito del mostro di Karloff si trovi in una casetta abbandonata poco lontana dal villaggio.
Considerato come una critica alla dittatura spagnola, il film di Erice è più che altro un racconto di infanzia, una specie di favola onirica e senza tempo sulla perdita dell'innocenza e la scoperta dei meccanismi che regolano il mondo degli adulti da parte di Ana, bambina tenera e sognatrice. E proprio come in un sogno, grazie alla regia lenta e suggestiva e alla fotografia di Cuadrado, Erice si sofferma su questo villaggio osservandolo con incanto e tenerezza. Viene da pensare al realismo magico dei romanzi sudamericani: la moglie distratta e trascurata dal marito che scrive lettere d'amore a uno sconosciuto, il padre di Ana, studioso fuori dal mondo appassionato di apicoltura, l'arrivo del cinema ambulante...
Tre anni dopo la piccola Ana Torrent verrà chiamata da Saura per il suo Cría cuervos, in cui interpreterà un ruolo molto simile a questo.
Un film particolare, da vedere.

martedì 11 gennaio 2011

Ucciderò un uomo



Que la bête meure
Di Claude Chabrol, 1969 (Francia, Italia)
Con Michel Duchaussoy, Caroline Cellier, Jean Yanne, Anouk Ferjac
Scritto da Claude Chabrol, Paul Gégauff, tratto dal romanzo di Nicholas Blake
Montaggio di Jacques Gaillard
Fotografia di Jean Rabier
Musiche di Pierre Jansen
Durata: 110 min.

Girato fra due chicche come Stéphane, una moglie infedele e Il tagliagole, questo film di Chabrol ha forse meno fascino, ma rimane comunque una tappa fondamentale della filmografia dell'"Hitchcock francese". Basato più sul dolore e il desiderio di vendetta del protagonista che sulle atmosfere misteriose di altri thriller di Chabrol, è la storia di Charles, un vedovo scrittore a cui un pirata della strada investe il figlio, uccidendolo. Il suo pensiero fisso sarà quello di ritrovarlo e ucciderlo, ma se i primi mesi di ricerca non danno frutti, è il caso a metterlo sulla buona strada, e grazie a un contadino della zona riesce a scoprire che l'uomo che cerca era in compagnia di Hélène, un'attrice di poco successo che inizierà a corteggiare per raggiungere il suo scopo.
Ucciderò un uomo ("Che la bestia muoia" in originale) è un film elegante e misurato, la cui seconda parte è diretta in modo quantomeno inusuale: lo scrittore trova l'assassino, ma invece di passare all'azione Chabrol preferisce introdurci nel suo mondo, descrivendo un personaggio fastidioso e fondamentalmente cattivo, odiato da quasi tutti i famigliari, figlio compreso. Questo procedimento permette al regista di costruire una parte finale ambigua e inaspettata, ma sicuramente d'impatto.
Da ricordare alcune scene magistrali, come la prima apparizione del perfido Paul, perfettamente interpretato da uno Jean Yanne rozzo e volgare, che rivedremo poi nei panni del macellaio de Il tagliagole.