domenica 30 ottobre 2011

Triangle


Di Christopher Smith, 2009 (UK, Australia), 99 min.
Con Melissa George, Liam Hemsworth, Rachael Carpani, Henry Nixon
Scritto da Christopher Smith

È abbastanza difficile parlare della trama di questo film senza rovinarne la visione, anche perché, per quanto da un certo punto in poi la storia non presenti nulla di nuovo, i trenta bellissimi minuti iniziali funzionano soprattutto se non si ha la minima idea di ciò che si sta vedendo. Quindi consiglierei a chi fosse interessato a procurarsi questo Triangle di interrompere la lettura dopo la prima foto, quella con la faccia di Melissa George in paranoia piena.
Per ora si può rivelare che il film inizia con Jess (la George) in preda alle lacrime che abbraccia il figlio, gli dice qualcosa riguardo ad un incubo di cui non ci è dato sapere nulla e poi, nella scena seguente, raggiunge ancora visibilmente scossa alcuni suoi amici al porto per una gita in barca. Il clima a bordo è relativamente sereno e pure Jess sembra adeguarsi allo stato d'animo del resto del gruppo. Le cose peggiorano quando, dopo una bevuta e una dormita, i cinque amici avvistano una tempesta formatasi all'improvviso poco lontano dalla loro barca. Riescono a contattare la guardia costiera per qualche secondo ma il segnale è disturbato, e nella comunicazione si intromette una voce di donna terrorizzata che pronuncia la solita frase ad effetto tipo “sono morti, sono tutti morti!” Poi, il silenzio. Una volta finita la tempesta la barca è inutilizzabile e alla deriva e una delle ragazze risulta dispersa. Fortunatamente (ma anche no), dopo non molto tempo sbuca dal nulla una nave su cui i nostri riescono a salire...


(Se state leggendo questa frase o avete già visto il film o non avete nessuna intenzione di recuperarlo, quindi inizio con gli spoiler.)
La nave però è deserta e girando per i corridoi i quattro trovano per terra un mazzo di chiavi appartenente a Jess: stesso fiorellino di plastica a mo' di portachiavi e, soprattutto, stesso ciondolo con tanto di foto del figlio.
Raccontare il seguito della trama fino al momento in cui il titolo del film perde ogni ambiguità (è stato girato in Australia ma nella storia ci troviamo presumibilmente al largo della Florida) e diventa chiaro che ci troviamo di fronte a realtà parallele, viaggi e paradossi temporali, sarebbe abbastanza inutile. Un'altra possibile e ancora più probabile interpretazione è data dagli stessi protagonisti nelle prime scene sulla nave da crociera, quando accennano al mito di Sisifo e al fatto che fosse stato condannato dagli dei a spingere un masso su per una collina, vederlo ricadere in basso e poi ripetere la fatica daccapo per l'eternità. Ma in questo caso, siccome a più riprese vediamo più “versioni” di ogni personaggio presenti contemporaneamente sullo schermo, sempre di viaggi nel tempo si tratta.
La storia però funziona proprio perché non viene mai fornita una spiegazione evidente e Smith, dopo l'acerbo Creep e l'inusuale Severance, con un budget relativamente basso di dodici milioni di dollari riesce finalmente nell'intento di angosciare lo spettatore. È un film semplice ma dalla messa in scena estremamente curata ed efficace. La tensione è presente dall'inizio alla fine e personalmente mi sono molto divertito. Non chiedevo altro.

venerdì 28 ottobre 2011

Sucker Punch


Di Zack Snyder, 2011 (USA, Canada), 110 min.
Con Emily Browning, Jena Malone, Abbie Cornish, Vanessa Hudgens, Jamie Chung, Carla Cugino, Oscar Isaacs, Scott Glenn
Scritto da Zack Snyder, Steve Shibuya

Snyder è uno strano. Esordisce con L'alba dei morti viventi, che pur non avvicinandosi minimamente al capolavoro a cui si ispira (ma in realtà nemmeno ci prova) riesce comunque a divertire, regalando pure una stupenda scena iniziale, per poi passare ad un film come 300, tanto curato nelle immagini quanto tristemente vuoto in tutto il resto. Torna poi a buoni livelli con Watchmen, si dedica ad un progetto di animazione che ancora devo vedere e poi se ne esce con questo Sucker Punch, che oltre a dirigere ha pensato bene pure di scrivere. Il problema è che non deve aver avuto le idee molto chiare.


Sucker Punch è la storia di Baby Doll (sì, Baby Doll), che in seguito alla morte della sorella si fa rinchiudere dal patrigno malvagio in un manicomio. Manicomio che, tanto per farci subito entrare in sintonia con... Baby Doll, è ovviamente gestito da una banda di sadici maniaci senza scrupoli. E fin qui tutto bene. La prima scena è infatti ottimamente girata e dà l'illusione di poter assistere ad un qualcosa di gradevole. Non avrei nemmeno nulla (o quasi) da obiettare sulla caratterizzazione dei loschi figuri che lavorano nel manicomio: finché posti come quelli, basati sull'assunto che vi siano esseri umani normali e altri meno normali, vengono descritti in questa maniera, io sono contento.
Poi però, il disastro!
Dopo un lunghissimo e penoso balletto con Carla Cugino e Oscar Isaac (che dopo questo film, per rifarsi, ha interpretato Standard in Drive) , Baby Doll conosce le altre pazienti del manicomio e subito diventa amica di Sweet Pea, Rocket, Blondie e Amber, e senza perdere un minuto di tempo spiega loro che ha intenzione di evadere uscendosene con un piano apparentemente infallibile. Snyder però a questo punto cambia registro ed entra in un suo trip personale che obbliga le nostre cinque eroine ad affrontare ogni prova immaginandosi una sorta di realtà alternativa. Non ci troviamo quindi più nel manicomio, ma nella fervida immaginazione di Baby Doll (e di Snyder) che, per evitare la lobotomizzazione, se la dovrà vedere con, in ordine sparso: giganteschi guerrieri umanoidi armati di spada e mitragliatrice, zombies nazisti, orchi cattivi, draghi e robot... e spero di non essermi dimenticato nulla.


Una cosa va subito detta: Snyder deve aver pensato e sviluppato il film in modo da poter piazzare il maggior numero di primi piani del bel faccino della Browning. Il resto è chiaramente secondario, altrimenti non si spiegherebbero tante cose, tipo il balletto già citato, il perché a un certo punto sbuchi fuori Scott Glenn ad aiutare le ragazze e altre decine di situazioni disordinatamente incollate una dietro l'altra. Ed è forse proprio questo il difetto maggiore del film: il disordine (subito dopo viene la noia; tanta, tanta noia). Dopo aver scritto una sceneggiatura complicata e indubbiamente difficile da trattare, Snyder prende spunto un po' qui e un po' là accontentandosi fondamentalmente di dimostrare – e riuscendoci solo a tratti - quanto ci sappia fare con la macchina da presa, senza mai preoccuparsi di dare un minimo di stile o di fascino al suo lavoro. I personaggi poi, diciamolo, sono ridicoli, e i loro dialoghi ancora peggio. Anche la fotografia, dopo i primi venti minuti, incomincia a stufare.
Alla fine ne viene fuori un film senza una vera e propria identità, confuso, ridondante, mai divertente e soprattutto privo di emozioni. E come se non bastasse, dopo tutto questo casino uno deve pure sorbirsi la morale finale. 


giovedì 27 ottobre 2011

Revanche


Di Götz Spielmann, 2008 (Austria), 121 min.
Con Johannes Krisch, Irina Potapenko, Andreas Lust, Ursula Strauss
Scritto da Götz Spielmann

Alex, un ex detenuto che lavora in una casa chiusa, ha una storia con Tamara, una delle prostitute del posto. I due innamorati, per cambiare vita e scappare dal gestore del bordello che intende trasferire Tamara in uno dei suoi appartamenti, decidono di rapinare la banca del villaggio con una pistola scarica. Durante la fuga però le cose vanno male e Robert, un poliziotto che passava di lì per caso, provando a sparare alle ruote della macchina sbaglia mira e uccide Tamara. Alex riesce comunque a scappare e si rifugia nella casa di suo nonno Hausner. Disperato per la morte della fidanzata, scopre dopo qualche giorno che Susanne, la donna che ogni tanto si prende cura di Hausner, è proprio la moglie del poliziotto che ha sparato a Tamara.
Il tema della vendetta, già affrontato in tutti i modi immaginabili, continua a suscitare interesse. In questo caso però non ci si concentra sulla pianificazione o sulla ricerca dell'appagamento a tutti i costi, né tantomeno si viene invitati a parteggiare per uno dei due protagonisti maschili.
Questo è un film sull'attesa, sull'elaborazione del dolore e su come poter riuscire a convivere con i propri sensi di colpa.
Sembra che Spielmann si sia quasi divertito nel dipingere una realtà così dura e drammatica, guardandosi bene dal giudicare o sentenziare e scegliendo di inserire ognuno dei suoi personaggi in un dolore apparentemente senza via d'uscita. Ci sarà anche chi, alla fine della storia, subirà una sorta di beffa e la rivincita – o seconda occasione - finirà quasi per passare in secondo piano: l'Austria di Spielmann non è certo l'America descritta nella maggior parte dei film di Hollywood. Al regista austriaco interessano gli aspetti più nascosti della storia, quelli interiori, e quindi: tempi lenti e massima ricerca del realismo. I rapporti fra Alex, Susanne e Thomas sono caratterizzati da dialoghi brevi e diretti. Contano le azioni, i gesti: le scene in cui Alex taglia la legna per sfogare la rabbia sono esemplari, così come la scena di sesso sul tavolo della cucina di Susanne.
Una gradevolissima sorpresa, priva di facili colpi di scena ed inutili spettacolarizzazioni ma ricca di tensione.

domenica 23 ottobre 2011

Polytechnique


Di Denis Villeneuve, 2009 (Canada), 77 min.
Con Maxim Gaudette, Sébastien Huberdeau, Karine Vanasse, Evelyne Brochu
Scritto da Jacques Davidts

Il 6 dicembre del 1989 Marc Lépine, uno studente venticinquenne misogino, entra nel politecnico di Montréal armato di fucile ed uccide a sangue freddo quattordici persone, ferendone altrettante. Le vittime sono tutte ragazze, e dei feriti solo quattro sono uomini. Venti minuti dopo aver dato inizio al massacro, Lépine si fa saltare la testa.


Non è facile portare sullo schermo storie di questo tipo senza eccedere in retorica e sentimentalismi. Qui Villeneuve ci riesce scegliendo più o meno lo stesso percorso intrapreso da Gus Van Sant per il suo Elephant, e cioè facendoci prima conoscere alcuni personaggi, con i loro pensieri e le loro voglie, e poi limitandosi, per almeno tre quarti di pellicola, ad una cronaca fredda e distaccata degli accadimenti, lasciando allo spettatore il compito di giudicare, elaborare, farsi un'idea...
Solo verso la fine viene dato spazio alle ripercussioni che una simile tragedia può avere su chi, avendola vissuta in prima persona, è riuscito a salvarsi (alcuni dei sopravvissuti si suicidarono in seguito al massacro), e solo nei primi minuti, attraverso la lettura dell'ultima lettera scritta da Lépine, viene spiegata una parte delle possibili motivazioni che si nascondono dietro quel gesto così assurdo.
Lépine escluso, le persone su cui si concentra Villeneuve sono essenzialmente tre: Valérie e Stéphanie, due amiche compagne di stanza, e Jean-François, un altro studente del Polytechnique. La quotidianità dei loro gesti – la scelta del vestito da mettere, un colloquio da superare, le fotocopie da fare prima che inizi il corso – si scontra con l'imprevedibile brutalità di un ragazzo che, freddo e determinato, dopo una breve dichiarazione sulla natura antifemminista del suo gesto pronunciata davanti ad un un gruppo di ragazze incredule, si aggira per i corridoi dell'istituto fucile in mano scatenando il panico.
Polytechnique è un film disturbante sia per la natura del soggetto che per il senso di disagio che lascia nello spettatore una volta terminata la visione. Le uccisioni, su cui il regista non indugia mai in modo particolare ma che decide invece di riprendere in modo diretto e veloce, colpiscono per il loro realismo.
All'epoca seguirono inevitabilmente numerosi dibattiti sull'uso delle armi da fuoco, sulle condizioni della donna e anche sul modo in cui alcune associazioni femministe furono accusate di voler approfittare dell'accaduto. Villeneuve, vent'anni dopo, sceglie saggiamente di limitarsi ai fatti. Ben scritto e ottimamente diretto.

lunedì 17 ottobre 2011

Drive


Di Nicolas Winding Refn, 2011 (USA), 100 min.
Con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Christina Hendricks, Ron Perlman, Albert Brooks
Scritto da Hossein Amini, tratto dal libro di James Sallis

È difficile scrivere qualche riga su un film come Drive. Principalmente per due motivi: il primo è che praticamente tutti i blog che seguo ne hanno già parlato con recensioni più interessanti, pensate e meno banali di quella che seguirà; il secondo è che il film di Refn, lo dico subito, è per me un puro capolavoro. Ad ogni modo, per tornare ad aggiornare più o meno regolarmente il blog, questo mi sembra il film perfetto, e quindi...
Con Valhalla Rising era stato amore a prima vista. I silenzi, i ralenti, una regia spettacolare tanto ricercata quanto naturale... Poi, recuperando Bronson, ho avuto la conferma del fatto che Refn è uno bravo, ma bravo davvero: come ce ne sono pochi. Infine, non molto tempo prima di andare al cinema a vedere Drive (primo film che vedo al cinema dopo mesi; ormai sono disposto a tutto pur di non vederli doppiati...) mi sono visto la trilogia di Pusher: stupenda pure quella. Le aspettative, inutile dirlo, erano quindi molto alte.


Driver (e non The Driver, a cui è inevitabile pensare) è un meccanico che nel tempo libero fa sia lo stuntman per Hollywood che l'autista nelle rapine. Freddo, distaccato, solitario, il suo unico amico sembra essere Shannon, il titolare dell'officina in cui lavora. Un giorno, tramite alcune conoscenze di Shannon, gli viene offerta l'opportunità di fare il pilota per una scuderia nascente. Nel frattempo però conosce Irene, la sua vicina di casa, il cui marito appena uscito di prigione lo coinvolge in una rapina che si rivelerà una trappola.
Drive, ammesso che uno abbia voglia di catalogarlo, è una sorta di noir sentimentale d'azione; adrenalinico, romantico, riflessivo, ipnotico... un film completo, verrebbe da dire. È inoltre il primo film in cui Refn, trascinato nel progetto da Ryan Gosling, si affida ad una sceneggiatura scritta da altri. Eppure la sua presenza si vede pesantemente, in uno stile che sembra una via di mezzo fra il realismo della trilogia di Pusher e la ricerca estetica di Valhalla Rising. È lui che trasforma un soggetto inizialmente pensato per Neil Marshall (che per quanto mi stia simpatico non avrebbe mai potuto nemmeno sognare di uscirsene con un film così) e Hugh Jackman in un affascinante prodotto tanto innovativo quanto pieno di rimandi ad un cinema più classico e asciutto. D'altronde i primi quindici minuti sono chiari: si inizia con un lungo inseguimento basato sulle attese e sulla tensione crescente più che su una fuga a tutta velocità con speronamenti e testacoda. La scena è ripresa in gran parte dall'interno della macchina di Driver che, stuzzicadenti in bocca, rimane impassibile fino alla fine. Poi arrivano i titoli di testa, con una spiazzante canzone in stile anni '80, e già si capisce che Drive sarà un film speciale.


La storia, semplice e lineare, presenta dei personaggi simbolici. Nessuno, a parte Driver e Irene, è particolarmente approfondito eppure ognuno di loro funziona alla perfezione: l'amico, il boss, il cattivo... Per Gosling e la Mulligan il discorso è un po' diverso: due personaggi agli antipodi (tanto pura ed innocente lei quanto freddo e all'occorrenza spietato lui) che, per forza di cose, si conoscono ed innamorano con tempi degni di un film sentimentale. Un innamoramento fatto di sguardi, silenzi e mani sfiorate che non passa mai in secondo piano, ma su cui è costruita una buona parte del film.
Ma quello che più colpisce è la bravura di un regista che passa con disarmante maestria da scene tenere e poetiche come quella in cui Driver e il bambino si guardano negli occhi senza dire nulla per una decina di secondi, ad altre di un'efferata violenza. E mai, nemmeno per un secondo, si ha l'impressione di assistere ad un qualcosa di forzato o troppo ricercato.
Fantastico anche l'uso frequente del ralenti, che se gestito come in questo caso (stesso discorso per Valhalla Rising) diventa davvero un'arma in più.
Imperdibile. L'unico difetto è stato il doppiaggio da film porno, ma il doppiaggio, si sa, è sempre dannoso.
I cinque “cuori” sono esagerati? Non lo so... non credo. Ora come ora mi viene da metterlo fra i migliori film degli ultimi dieci anni.

mercoledì 12 ottobre 2011

In search of a midnight kiss



Di Alex Holridge, 2007 (USA), 90 min.
Con Scoot McNairy, Sara Simmonds, Brian McGuire, Katie Luong
Scritto da Alex Holridge

Ultimo giorno dell'anno: Winston, ventinovenne single e disoccupato arrivato da poco a Los Angeles, si fa convincere dall'amico con cui divide l'appartamento a pubblicare un annuncio su un sito di incontri. Dopo poco, risponde inaspettatamente Vivian, una ragazza disposta a conoscerlo subito. I due si danno appuntamento in un locale e passano il pomeriggio insieme, parlando di teatro, dei loro sogni, di scarpe abbandonate e, soprattutto, dell'ex fidanzato di lei... Se Winston supererà il “provino”, Vivian sarà anche disposta a trascorrere con lui tutta la serata, in modo da non ritrovarsi sola per l'inizio dell'anno nuovo.

Piccola commedia romantica indipendente costata meno di venticinquemila dollari, In Search of a Midnight Kiss si fa guardare senza problemi, alternando qualche momento banale ad altri decisamente più efficaci. La prima scena può ingannare: si inizia con Winston intento a masturbarsi davanti alla foto di Min, la ragazza del suo coinquilino Jacob, che all'improvviso entra nella stanza e lo scopre. Divertito dalla cosa (lo stesso non si può dire di Winston), Jacob chiama anche Min, la quale, invece di offendersi, si dichiara onorata. Nonostante questa prima scena, che sembrerebbe uscita da uno dei tanti American Pie, Holridge non scade mai nella volgarità gratuita, e riesce a gestire senza troppi problemi anche i momenti più romantici.
La trama e i personaggi non presentano nulla di nuovo (timido e impacciato lui, intraprendente e lunatica lei), ma la recitazione dei due protagonisti principali è buona e i loro dialoghi, a tratti anche divertenti, non risultano quasi mai forzati.
Lo sviluppo della storia e l'alchimia che nasce quasi istantaneamente fra i due personaggi fa pensare inevitabilmente a Prima dell'alba e Before Sunset, di Linklater, che infatti compare nei ringraziamenti finali del film. I risultati finali sono incomparabili, ma la spontaneità di McNairy e della Simmons ricorda timidamente gli scambi veloci, sinceri e quasi interamente improvvisati di Julie Delpy e Ethan Hawke.
Girato per essere distribuito in bianco e nero, esiste anche una versione a colori uscita in seguito, che fortunatamente non ho visto.