venerdì 30 marzo 2012

Polisse




Di Maïwenn, 2011 (Francia), 127 min.
Con Karin Viard, Joey Starr, Marina Foïs, Maïwenn, Riccardo Scamarcio, Emmanuelle Bercot
Scritto da Maïwenn, Emmanuelle Bercot

La Brigade de Protection des Mineurs si occupa delle violenze sui minori, di casi di pedofilia e anche di alcuni piccoli reati commessi da minorenni. Maïwenn, adottando un classico stile documentaristico, prova a farci un film.
La pellicola nel suo insieme appare però falsa, pretenziosa ed esagerata, non tanto nelle dure descrizioni di quello che le vittime sono costrette a sopportare, quanto nel cattivo gusto e nella retorica di una sceneggiatura e di una regia basate esclusivamente sulla costante ricerca di un realismo mai raggiunto e sulla voglia irrefrenabile di scandalizzare ad ogni costo lo spettatore.

Le intenzioni di Maïwenn erano di restare imparziale e di evitare di descrivere degli eroi, ma bastano una decina di minuti per rendersi conto che non sarà così: viviamo in un mondo di pedofili e meno male che ci pensa la BPM, i cui agenti non hanno un momento libero nemmeno quando sono seduti in un bar a prendere un caffè, poiché basta girare un attimo lo sguardo per assistere a scene di bambini maltrattati e infanzie rovinate. È grazie a loro se possiamo dormire tranquilli, sembra suggerire la regista.
Ed ecco che l'abuso di potere non è più un problema, perché loro sono la Police e quindi possono (c'è una scena in cui vengono pronunciate più o meno le stesse parole), e andare a prelevare con la forza i bambini in un campo rom per schiaffarli in un collegio diventa cosa giusta e bella, la cui durezza viene poi esorcizzata in una scena che ancora spero di essermi solo immaginato: i giovani zingari, in lacrime fino a pochi minuti prima, salgono sul pullman delle forze dell'ordine e si mettono a cantare e a ballare in compagnia degli eroici poliziotti sorridenti. Roba da vomito.
Ma gli eroi, si sa, devono comunque avere dei problemi perché in fondo sono persone comuni, e allora entriamo anche nelle vite private di ciascuno di loro, in un'accozzaglia di scene ripetitive e stereotipate fino all'inverosimile (i dialoghi politici su Sarko; la moglie che vorrebbe che il marito poliziotto le raccontasse qualcosa del suo lavoro e il marito che risponde – urlando senza ragione, ché così è tutto più realistico e disperato – che non c'è niente di bello in quello che fa; la poliziotta anoressica che odia gli uomini; il poliziotto incazzato con tutto e tutti e tante altre simpatiche situazioni familiari che vengono trattate con maggior rigore e sensibilità anche nel peggiore dei cinepanettoni).
E la regista, forse preoccupata che le due ore abbondanti possano risultare eccessive (e lo sono), sovraccarica dialoghi e contenuti, disorientando attori (escluso Joey Starr, che sfortunatamente si è beccato il ruolo principale ma non è chiaramente un attore e compare nel film solo perché nella realtà, se ho ben capito, va a letto con Maïwenn) e spettatori. La convinzione che debba sempre e comunque succedere qualcosa di estremamente drammatico, che si tratti del lavoro quotidiano, delle implicazioni politiche o delle dinamiche dei rapporti fra i vari corpi della polizia (la BPM viene considerata dagli altri poliziotti come una sorta di reparto minore), appare quindi inutile e contribuisce a rendere il risultato finale una sorta di parodia involontaria.
Certo è facile spingere lo spettatore a simpatizzare per le giovani vittime descritte nel film; meno facile è non scadere in un superficiale ed irritante moralismo conformista da due soldi.

03/20

Per due pareri completamente diversi, leggete la recensione Fordiana e quella Cannibale.


lunedì 26 marzo 2012

Undisputed Trilogy


Non sono mai stato un particolare fan dei film di arti marziali o degli sport da combattimento, però, come molti umani maschi nati all'inizio degli anni '80, sono cinematograficamente cresciuto anche coi film di Van Damme e soci. Con questa trilogia (in particolar modo coi due film di Florentine) mi è sembrato di tornare indietro nel tempo e quindi eccoci qui. Sono ovviamente presenti spoiler.

Nel 2002, fra l'indifferenza generale, esce Undisputed. Alla regia un veterano del genere, Walter Hill, che si occupa anche della sceneggiatura insieme a David Giler, i cui lavori di maggior rilievo rimangono quelli legati alla saga di Alien. Il film è un onesto dramma carcerario con Wesley Snipes e Ving Rhames, senza nulla di particolare da dire ma ben diretto e tutto sommato gradevole. La storia è semplice: George Chambers, famosissimo campione di boxe ispirato alla figura di Mike Tyson, viene accusato di stupro e rinchiuso in un carcere in mezzo al deserto. Il boss mafioso Peter Falk ne approfitta per organizzare un incontro fra Chambers e Monroe Hutchen, ex giovane promessa della boxe, imbattuto da più di dieci anni di tornei carcerari.
Quattro anni dopo, con l'aiuto di alcuni produttori del primo, si decide di girare un sequel. E si saranno chiesti: “che stile gli diamo, come lo facciamo?” La risposta dev'essere stata un coro unanime del tipo: “facciamolo ZARRO!” E così è stato.


E quindi, riprendendo a grandi linee la trama del primo ma invertendo buoni e cattivi, chiamano Michael Jai White nel ruolo di Chambers e Scott Adkins in quello del personaggio d'azione più pericoloso che si sia visto in giro negli ultimi anni: Yuri Boyka, “the most complete fighter in the world; the next stage”, come a lui piace tanto ricordare. White già lo si era visto in giro in qualche blockbuster sparso e in Black Dynamite, quasi sempre “in borghese”, e poi anche nel bruttino Blood and Bone, dove interpreta un ruolo molto simile a quello di Chambers, non tanto per quanto riguarda la personalità, quanto per l'abilità nello spaccare i culi. E poi c'è questo Adkins, che io non conoscevo (in realtà aveva fatto qualche comparsata in film come Danny the Dog e Bourne Ultimatum) e che, come si scriveva prima, riesce a conquistare pubblico e critica (?) guadagnandosi pure il ruolo da protagonista nel terzo capitolo. In questa serie, infatti, hanno l'abitudine di fare del cattivo di un film il personaggio principale del seguente: Chambers (ma non Ving Rhames) torna nel secondo e diventa buono, Boyka torna nel terzo e diventa un filino meno cattivo. Ma per ora fermiamoci al secondo: The Last Man Standing.
Chambers, dopo essersi fatto mazzolare da Snipes, si trova in Russia per girare uno spot pubblicitario e per una serie di incontri organizzati. Si dà il caso che lì in Russia ci sia anche Gaga, un mafioso che si occupa di scommesse sui combattimenti fra carcerati. Preoccupato per il suo giro d'affari, Gaga fa in modo che Chambers venga trovato in possesso di un grande quantitativo di droga e sia quindi rinchiuso nel carcere in cui si trova Boyka. Le sue intenzioni sono chiare: organizzare un incontro fra i due. Ed è proprio sulla fisicità di Jai White e di Adkins che si regge il film.
Il primo è il cattivo buono per cui si fa il tifo e che si allena su questa canzone qui, il secondo è uno spietatissimo russo dal passato oscuro, capo incontrastato della prigione; cattivo, ma a suo modo anche leale: c'è un momento in cui per facilitargli le cose gli drogano a sua insaputa l'avversario, che lui quindi batte senza troppi problemi (lo avrebbe battuto comunque, diciamolo); quando lui però viene a saperlo la prende malino e “spiega” ai malcapitati di turno che per vincere non ha bisogno di certi trucchetti.


Le differenze fra il film di Walter Hill e questo di Florentine appaiono evidenti fin da subito. Il primo è un sottovalutato dramma d'azione senza pretese diretto da uno che il cinema d'azione sa come trattarlo, peraltro già avvezzo ai film di combattimento; il secondo abbandona (ma non del tutto) le componenti più drammatiche e si concentra su quelle adrenaliniche, diventando pura apologia della tamarraggine. La storia c'è ma, malgrado Florentine e soci abbiano fatto un buon lavoro nel curare una trama che non diventi una mera scusa per arrivare alle scene di violenza, i combattimenti rappresentano sicuramente il punto di maggior interesse della pellicola. Diretti ed eseguiti con stupefacente maestria, contengono mosse inimmaginabili e cartelle in faccia che ti fai male solo a guardarle. La macchina da presa non viene scossa freneticamente per inserire lo spettatore nell'azione, il montaggio è ridotto al minimo se si pensa ad altri combattimenti corpo a corpo del cinema americano recente e i virtuosismi si limitano a pochi ralenti ed accelerazioni improvvise.
È una ricetta che funziona e infatti, quando quattro anni dopo arriva il momento dell'inevitabile terzo capitolo, gli ingredienti restano più o meno gli stessi.
Boyka, sempre più zarro ma con una gamba praticamente fuori uso, si offende quando nel carcere in cui un tempo spadroneggiava arriva un nuovo campione di arti marziali, che Gaga (sempre lui) sceglierà per partecipare ad un importante torneo fra carcerati al cui vincitore verrà garantita la libertà. Credibilità della trama prossima allo zero ma applausi garantiti già dopo pochi minuti, quando Boyka irrompe nella sala in cui il nuovo campioncino ha appena vinto un incontro, gli lancia addosso un secchio d'acqua e lo sfida a combattere. Vince facile, e si aggiudica un posto al torneo.
L'unica differenza rispetto al secondo è il modo in cui viene strutturata la vicenda: al torneo partecipano otto atleti e vediamo tutti i combattimenti, anche quando sul ring non ci sono Boyka o il suo nuovo amichetto del cuore Turbo, secondo protagonista del film. Il cattivo, in questo caso, è interpretato da un certo Zaror, efficace nella parte di un assassino squilibrato. Calci rotanti e sganassoni vari trovano spazio anche al di fuori del ring, ad esempio in una mega rissa fra Boyka, Turbo e una ventina di secondini armati di manganello.
Non sono certo pellicole adatte a tutti, ma rappresentano una visione obbligatoria per gli appassionati dei film di legnate. Va anche detto che chiunque di voi sia un patito del genere avrà già visto tutt'e tre i film, il che rende questa recensione fondamentalmente inutile.

Undisputed (Walter Hill, 2002) 12/20
Undisputed 2: Last Man Standing (Isaac Florentine, 2006) 13/20
Undisputed 3: Redemption (Isaac Florentine, 2010) 13/20

giovedì 15 marzo 2012

Last Life in the Universe


Ruang rak noi nid mahasan
Di Pen-Ek Ratanaruang, 2003 (Thailandia, Giappone), 112 min.
Con Tadanobu Asano, Sinitta Boonyasak, Laila Boonyasak, Takashi Miike
Scritto da Pen-Ek Ratanaruang, Prabda Yoon

Kenji sta preparando l'ennesimo tentativo di suicidio: la corda è fissata, nel suo appartamento stracolmo di libri non vola una mosca e lui già si immagina la scena di quando troveranno il suo cadavere ancora appeso per il collo. Ad interrompere la scena, giusto in tempo, ci pensa suo fratello Yukio, membro della yakuza appena arrivato a Bangkok dal Giappone. Personaggio fastidioso, arrogante, invadente; non si fa troppi problemi a prendere in giro il fratello per i suoi tentativi di suicidio e inizia a trattarlo come uno schiavo già dopo pochi secondi. Kenji, invece, è tutto il contrario: è riservato, parla poco ed è gentile con tutti, fratello compreso. Dopo i pochi minuti necessari per entrare in sintonia coi personaggi, Kenji rimane coinvolto in uno confronto mortale fra Yukio e un altro membro della yakuza, e si ritrova con due cadaveri in casa.
Nel frattempo ci vengono brevemente presentate Noi e Nid, due sorelle che non fanno altro che litigare. Sono in macchina e stanno tornando a casa, ma ad un certo punto Noi dice qualcosa di troppo e Nid ferma la macchina dicendole di scendere. Dopo qualche secondo, ferma in mezzo alla strada, Noi si accorge di un uomo che sta per buttarsi giù dal ponte. Si tratta di Kenji, che si gira a sua volta e prova a sorriderle. L'improvvisa intesa che si è creata fra i due personaggi viene però interrotta da una macchina che travolge Noi, uccidendola.
Kenji accompagnerà poi Nid all'ospedale e in seguito pure a casa sua, e scoprirà di avere un motivo in più per continuare a vivere.
Quella di due vite che si ritrovano legate per via di un incidente è una trama che non sembra effettivamente dire nulla di nuovo, ma questo non è un film sul dolore o sul superamento di un trauma, e la morte improvvisa di Noi non lascia tracce pesanti sul resto della pellicola. Al centro dell'attenzione vi è lo strano rapporto che si instaura fra Nid e Kenji e la parte più importante della vicenda è quasi interamente ambientata nella disordinata e semidistrutta casa di lei, dove i due personaggi si parlano provando ad imparare uno la lingua dell'altra (con l'aiuto di qualche frase in inglese), passando la maggior parte del tempo a fumare erba sdraiati sul divano.
Si vive, quindi, in un mondo a parte, isolati dalla società ed immersi in un'incantevole atmosfera che il regista è bravo a non rendere mai invadente o fuori luogo.
Questa nuova amicizia permetterà inoltre al timido Kenji di ritrovare un certo interesse nelle cose, e una delle prime risoluzioni sarà quella di aiutare Nid a pulire e ordinare l'appartamento. In seguito si ritroverà pure a dover difendere la ragazza da uno strano individuo che la perseguita, in una scena che permetterà, attraverso un semplice tatuaggio, di scoprire finalmente qualcosa in più sul passato del protagonista e sul perché abbia deciso di trasferirsi a Bangkok.
A complicare le cose, dopo più di un'ora di pellicola a metà fra il romantico ed il surreale (bellissima la scena in cui la casa si mette a posto da sola), arrivano dal Giappone i colleghi mafiosi del fratello di Kenji, la cui improvvisa entrata in scena condurrà la pellicola all'enigmatico finale.

17/20

martedì 13 marzo 2012

You really should see these - Day 3: Road movies


Ultima puntata del You really should see these, dedicata interamente ai road movies. Non mi sono però limitato ai road movies classici e ho compilato una lunga lista di film in cui il viaggio è uno degli aspetti più importanti.
Conta il concetto di viaggio (o di fuga) e non di arrivo, quindi. La meta importa solo fino a un certo punto: può anche non esserci oppure corrispondere al luogo da cui si è partiti.
Non è un genere ben definito e i sette titoli che ho scelto, tranne qualche piccola eccezione, sono diversissimi fra loro, ma ho voluto fare una classifica un po' diversa e si è pure rivelata un'ottima occasione per mettere due o tre dei miei film preferiti. Spero che rientri comunque nelle regole scritte da Elio, che come al solito riporto anche qui:

1) Essendo difficile scegliere un unico genere o filone cinematografico, non lo si farà. Se ne possono scegliere 3, ed ogni giorno sarà dedicato ad un genere diverso.
2) Ogni classifica dovrà contare solo ed esclusivamente 7 pellicole.
3) Il genere dovrà essere introdotto, brevemente o meno, e le scelte dovranno essere giustificate, sì da rendere ulteriormente utili le singole classifiche.

Chiunque dovesse decidere di farlo, oltre a rispettare le regole appena scritte, dovrà semplicemente riportare l'identificativa e fantastica immagine ad inizio post.




7. Punto Zero (Richard C. Sarafian, 1971)
Il lungo ed allucinato viaggio di Kowalski, che deve partire da Denver per andare a consegnare una macchina a S. Francisco e che per una scommessa col suo spacciatore decide di affrettare i tempi imponendosi un tempo limite praticamente impossibile da rispettare. A seguire la sua folle corsa, un dj che ne incoraggia la fuga dalle forze dell'ordine e il cui studio verrà poi assalito dalla polizia e da alcuni “manifestanti”. Accolto non troppo positivamente dalla critica, col passare degli anni è diventato un citatissimo cult movie, da Tarantino in Death Proof ai Primal Scream che gli dedicano un intero album.



6. Into the Wild (Sean Penn, 2007)
Di nuovo una fuga. Dallo stesso “nemico”, si potrebbe dire. Ma se Kowalski, per andarsene da un modo di vivere che non lo soddisfa, decide di montare in sella alla sua Challenger, McCandless sceglie il percorso inverso. Si libera della maggior parte dei beni di consumo che possiede, scappa da un futuro che gli avrebbe garantito soldi e vita facile, abbandona gli affetti e comincia il suo viaggio con un'unica idea in testa: allontanarsi il più possibile da una società fatta di obblighi e convenzioni avvicinandosi alla Natura e ad un modo di vivere più libero ed appagante.
Penn, pur non giudicando il protagonista, è comunque bravo nell'insistere sui motivi che lo hanno portato al totale abbandono di un'esistenza programmata a priori.



5. Valhalla Rising (Nicolas Winding Refn, 2009)
Tempi dilatati, abbandono quasi totale dei dialoghi. L'Uomo si allontana dalla Natura con la pretesa che la religione possa fornire risposte che non esistono.
Da qui nasce lo smarrimento che assale chiunque creda che attraverso un presunto dio sia possibile elevarsi al di sopra degli altri e imporre una visione gerarchica della vita. Questo smarrimento si tramuterà in follia e infine in cieca violenza. Alla fine del lungo viaggio, l'unico a trovare se stesso sarà proprio One-Eye, il guerriero muto in cerca del Valhalla.



4. Cinque pezzi facili (Bob Rafelson, 1970)
Dupea, dopo aver rinnegato le sue origini borghesi, trova lavoro come operaio in California. Ma la ripetitività di questa sua nuova vita incomincia a stancarlo e sente il bisogno di andarsene nuovamente, abbandonando amori e amicizie.
Terzo film della classifica in cui il viaggiare si rivela come una fuga in piena regola; un ribellarsi ad un qualcosa di non ben definito che soffoca e rattrista, e da cui si sente quindi il bisogno di scappare. Nicholson eccezionale.



3. Stranger than paradise (Jim Jarmusch, 1984)
Eva arriva a Cleveland dall'Ungheria e suo cugino Willie è costretto ad ospitarla per una decina di giorni, il tempo necessario affinché la zia di lei venga dimessa dall'ospedale.
Uno dei pochi road movies in cui i personaggi non subiscono cambiamenti. Si viaggia svogliatamente, quasi per inerzia, un po' per piacere e un po' perché non c'è fondamentalmente nulla di meglio da fare. Eppure si scherza, si ride e ci si innamora pure, ascoltando I Put A Spell on You di Screamin' Jay Hawkins lungo le strade deserte delle periferie americane. Ma Jarmusch, come al solito, rimane in bilico fra l'ironia ed un'inevitabile malinconia di fondo.



2. Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979)
Me ne rendo conto: il film di Coppola, in questa classifica, sembra un po' un intruso. Ma il viaggio, in questo caso, conta ben più di un conflitto che viene affrontato solo in parte e mai in modo troppo insistito. Ovviamente le intenzioni erano quelle di parlare del Vietnam, ma Coppola sceglie di farlo attraverso la follia che, come una malattia, si impossessa dei soldati, limitando le scene di battaglia e aggiungendo un personaggio (Kurtz) in grado di rappresentare in modo perfetto “l'orrore” ricercato dal regista.
Una lunga ed ipnotica avventura – questa volta con una meta – che si rivelerà ben più complicata del previsto.



1. Pierrot le fou (Jean-Luc Godard, 1965)
Giudicato scandaloso da benpensanti e conservatori dell'epoca, fu addirittura vietato ai minori di 18 anni. Il motivo ufficiale: “un anarchisme intellectuel et moral” (un anarchismo intellettuale e morale). Pierrot e Marianne, delinquenti, scappano dalle apparenze e dall'ipocrisia di quella che Belmondo definisce la “civiltà dei culi” e iniziano un lungo viaggio senza meta, logica o regole attraverso la Francia.
Probabilmente uno dei film più rivoluzionari della già di per sé rivoluzionaria Nouvelle Vague. Sia per la messa in scena che per i contenuti. Godard critica consumismo (quello della “società dei culi” di cui sopra), capitalismo, politiche imperialiste, produzione di armi e tutto quanto possa opporsi allo spirito libertario dei due innamorati in fuga, che continueranno a viaggiare e cantare senza una meta precisa, fino alla fine.

venerdì 9 marzo 2012

You really should see these - Day 2: Fantascienza



Non ce ne sarebbe bisogno dato che non ho postato nulla fra la classifica dei film di zombies e questa, ma riporto comunque il regolamento creato da Elio:

1) Essendo difficile scegliere un unico genere o filone cinematografico, non lo si farà. Se ne possono scegliere 3, ed ogni giorno sarà dedicato ad un genere diverso.
2) Ogni classifica dovrà contare solo ed esclusivamente 7 pellicole.
3) Il genere dovrà essere introdotto, brevemente o meno, e le scelte dovranno essere giustificate, sì da rendere ulteriormente utili le singole classifiche.

Chiunque dovesse decidere di farlo, oltre a rispettare le regole appena scritte, dovrà semplicemente riportare l'identificativa e fantastica immagine ad inizio post.

Ero indeciso se prendere in considerazione tutto il genere fantascientifico o se concentrarmi su sottogeneri specifici come ad esempio le invasioni aliene o i viaggi nel tempo. Alla fine ho optato per la prima, anche se ha voluto dire includere alcuni dei soliti titoli che si vedono abitualmente in queste classifiche. Ho preferito non considerare unicamente un dato periodo e ho incluso tutti quei film con cui sono cresciuto o che mi hanno fatto appassionare al genere. Buona visione!


7. Atto di Forza (Paul Verhoeven, 1990)
Un operaio scopre di essere in realtà un agente segreto a cui hanno cancellato la memoria. Dovrà recarsi su Marte per scoprirne di più, ricordare il passato e fare il culo ai cattivi. La settima posizione è forse l'unica che mi ha fatto andare un po' in crisi, nel senso che ero indeciso fra questo e una buona decina di altre pellicole. Alla fine ha deciso il cuore, perché l'affetto che provo per questo film è tanto e non potevo non dedicargli un posto in classifica. Storia avvincente e originale, ambientazioni fantastiche ed effetti speciali sorprendenti ancora oggi.



6. The Matrix (Andy Wachowski, Lana Wachowski, 1999)
Una delle pellicole di fantascienza più rivoluzionarie degli ultimi anni.
C'è un po' di tutto: kung fu, strane profezie, macchine pensanti, ambientazioni cyberpunk e, ovviamente, pure una storia d'amore.
Ricordo ancora l'incredibile impatto che ebbe su di me questa pellicola. Col passare degli anni ho tralasciato alcuni aspetti e mi sono divertito a considerare quelli più libertari, che sono tanti e nascosti solo in parte dal massiccio uso di capriole ed effetti speciali. Emblematico il discorso finale di Neo rivolto alle macchine.



5. L'Invasione degli Ultracorpi (Don Siegel, 1956)
Prima trasposizione cinematografica del romanzo di Finney scritto nel 1955 (l'ultima, se non mi sono perso nulla, dovrebbe essere il pessimo Invasion, con Nicole Kidman e Daniel Craig), L'Invasione degli Ultracorpi è un film che a rivederlo ora sembra non essere minimamente invecchiato. Capolavoro angosciante e pesante accusa al conformismo della società moderna. Fantastico.



4. 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968)
E anche in questo caso c'è poco da dire. Kubrick si diverte a ripercorrere la storia dell'uomo arrivando ad ipotizzarne un futuro dominato dalla tecnologia e dall'intelligenza artificiale. I significati possono essere molteplici e per quanto mi riguarda non avrebbe senso fermarsi ad una singola interpretazione. Non lo rivedo da tanto, ma ancora mi ricordo la regia perfetta, la splendida fotografia e la particolarissima atmosfera.



3. La Cosa (John Carpenter, 1982)
Forse il mio film preferito di Carpenter, di cui prossimamente mi divertirò a fare una specie di classifica. Flop al botteghino, viene poi rivalutato col passare degli anni fino a diventare uno dei film di fantascienza più citati e famosi. I makeup effects di Bottin hanno fatto storia, e Carpenter tira fuori uno dei suoi tanti capolavori, allontanandosi di parecchio dal primo film del 1951, La Cosa da un altro mondo.



2. Alien (Ridley Scott, 1979)
L'alieno più spietato di sempre, Sigourney Weaver col lanciafiamme, il silenzio dello spazio profondo e la scena del mostro che fuoriesce dal torace di Kane. Basterebbero queste poche scene per fare di Alien una visione obbligata.
Oltre ad essere un capolavoro, è anche il motivo per cui in questa lista non è presente Blade Runner, dato che avevo deciso di non mettere più di un film per ogni regista.



1. Solaris (Andrej Tarkovskij, 1972)
Kris Kelvin viene mandato in missione su una stazione spaziale sovietica nei pressi del pianeta Solaris. Assisterà ad inspiegabili fenomeni che lo porteranno a confrontarsi con la moglie defunta ed altre inquietanti manifestazioni, ciascuna legata al passato dei pochi disillusi membri dell'equipaggio.
Lo spazio profondo e l'oceano pensante servono al regista russo per insistere sulle difficoltà dell'uomo di conoscere se stesso. Ipnotico ed angosciante.