giovedì 22 dicembre 2011

Apollo 18


Di Gonzalo López-Gallego, 2011 (USA, Canada), 86 min.
Con Warren Christie, Lloyd Owen, Ryan Robbins
Scritto da Brian Miller, Cory Goodman

Qualche breve intervista di repertorio ci presenta subito i tre membri dell'equipaggio dell'Apollo 18 in procinto di partire per la Luna. La loro era una missione segreta di cui non è mai stato fatto sapere nulla, ma ora, su un sito internet, sono state caricate le oltre 80 ore di filmati ritrovati. Apollo 18 è il montaggio di 75 minuti che permette di farsi un'idea abbastanza precisa dell'accaduto.
Sono presenti lievi spoiler, ma credo niente che possa rovinare la visione del film.


Il mockumentary, genere sempre più in voga e quindi sempre più rischioso da affrontare, presuppone che il materiale video presentato allo spettatore sia reale. Reali le immagini, il sonoro, i personaggi, reale pure il modo in cui il filmato è stato recuperato e reso disponibile a chi lo sta guardando. In questo caso si è scelto quello più usato: il ritrovamento dei video, il famoso found footage.
Ci siamo? No, non ci siamo, prima di tutto perché devi fornirmi una spiegazione logica al ritrovamento del video, e poi perché se vuoi farmi vedere un mockumentary dell'orrore ed alla prima occasione buona, per spaventarmi, mi spari a tutto volume degli effetti sonori che di realistico non hanno proprio nulla, come se di mockumentary non si trattasse, partiamo già col piede sbagliato, e per riconquistarti la mia fiducia dovrai faticare il doppio. Ma López-Gallego non sembra avere l'intenzione di scomodarsi più di tanto, perlomeno non nei primi tre quarti d'ora di pellicola, e la storia fatica quindi ad ingranare.


Le cose incominciano a farsi un minimo interessanti quando i due astronauti (il terzo è rimasto in orbita attorno alla Luna) si rendono conto che il vero nemico non è un cosmonauta assassino uscito di senno (siamo in piena guerra fredda e si dà il caso che sulla Luna siano stati mandati anche i russi), ma un qualcosa di non ben definito, sicuramente ostile e presumibilmente anche parecchio incazzato. Per non anticipare troppo, lascio a voi il piacere di scoprirne la natura.
Da questo punto in poi, quindi, nonostante la maggior parte degli spaventi siano causati dai soliti fastidiosi rumori improvvisi, si incomincia ad avvertire un po' di angoscia. Il che sarebbe anche normale, in una storia ambientata nello spazio, con la Terra ridotta ad un piccolo pallino all'orizzonte e una minaccia aliena pronta ad attaccare in qualsiasi momento. Sia chiaro, è giusto che un film di questo tipo eviti di terrorizzare da subito lo spettatore, e ben vengano le attese e una lenta costruzione della tensione (basti pensare ai primi venti minuti di [Rec] o di Cloverfield), ma qui, di costruito, c'è davvero poco, e la totale mancanza di intensità della prima parte finisce per rovinare anche la seconda, che non regala  comunque nulla di particolarmente interessante.
Insomma, a parte le claustrofobiche ambientazioni e qualche timido spavento, Apollo 18 è un film freddo e troppo poco coinvolgente, a cui manca quella personalità che un found footage movie, per sopperire alle inevitabili carenze tecniche, dovrebbe avere.

07/20

mercoledì 21 dicembre 2011

Let me in



Di Matt Reeves, 2010 (USA, UK), 116 min.
Con Kodi Smit-McPhee, Chloë Grace Moretz, Richard Jenkins, Elias Koteas
Scritto da Matt Reeves, tratto dal romanzo di John Ajvide Lindqvist

Non sono contro i remake, non a prescindere. Certo è raro che riescano ad avvicinarsi ai livelli della prima versione e il più delle volte risultano assolutamente inutili, ma in certi casi hanno anche il pregio di far riscoprire il film originale, e in altri ne interpretano invece la storia in modo diverso, concentrandosi su aspetti che il primo film aveva tralasciato.
Quelli che invece mi lasciano davvero basito sono i remake di film usciti da poco, e “poco”, in questo caso, vuol dire appena due anni. Ci sarebbe la scusante della diversa nazionalità, ma il film di Alfredson, molto più famoso di questo Blood Story, non aveva certo bisogno di un'operazione del genere.


La storia è sempre quella: Owen, bambino timido e solitario preso in giro dai compagni di scuola, conosce Abby, una nuova vicina venuta ad abitare proprio nell'appartamento accanto al suo, e trova in lei una via di fuga da una vita che certo non lo soddisfa. I due incominciano quindi a vedersi sempre più di frequente, diventando quasi inseparabili. Nel frattempo, la quiete del paesino in cui abitano viene scossa da una serie di brutali omicidi, e Owen si rende presto conto che la responsabile potrebbe essere proprio la sua nuova amica.

A Reeves va riconosciuto il merito di aver ripreso le atmosfere di Lasciami entrare senza trasformare il tutto in una gran tamarrata. Questo è un film lento e misterioso, ben diretto e ottimamente fotografato. Al bianco dominante del film di Alfredson si aggiunge l'arancione delle luci notturne, sfruttato soprattutto durante i primi incontri fra Owen ed Abby nel cortile davanti a casa, ma oltre a questa non ci sono particolari differenze e Reeves, senza inventarsi nulla, dirige il suo film basandosi pesantemente sull'originale, forse fin troppo. Il problema, forse causato proprio dal fatto che tutto quello che vediamo ci era già stato proposto in precedenza, è che dell'originale non conserva quella sensazione di inquietante smarrimento che lo rendeva, a mio parere, uno dei migliori film sui vampiri usciti negli ultimi anni. Le personalità dei due ragazzini (specialmente quella di Eli/Abby), sulle quali è costruito praticamente l'intero film, sono infatti descritte in maniera più profonda e sentita nella sceneggiatura di Lindqvist, e il risultato finale non può non risentirne.
In fin dei conti Let me in è un remake leggermente più caldo e patinato del film del 2008, forse altrettanto disturbante e violento ma sicuramente meno suggestivo.
Da notare comunque il pledge of allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti, imposto ad una classe di poveri bambini innocenti in quella che è sicuramente la scena più inquietante dei due film messi insieme.
Carino, ma già c'era.

13/20

domenica 18 dicembre 2011

Offscreen


Di Christoffer Boe, 2006 (Danimarca), 93 min.
Con Nicolas Bro, Lene Maria Christensen, Christoffer Boe
Scritto da Knud Romer Jørgensen, Christoffer Boe

Nicolas Bro, attore danese di successo, decide di fare un film su se stesso e sulla sua relazione con Lene. Un film sull'amore, lo chiama lui. Si rivolge quindi all'amico regista Christoffer Boe per farsi dare qualche consiglio e rimediare una telecamera con cui iniziare il progetto, che sembra avere un'unica e semplicissima regola: filmare tutto, o quasi, senza censure. Telecamera costantemente accesa e decine di nastri al giorno su cui vengono catturati i preparativi dietro le quinte prima di uno spettacolo, uscite con gli amici, escursioni in macchina e, soprattutto, i primi gravi litigi di coppia fra Nicolas e Lene, la quale si dimostra sempre più contraria a farsi riprendere praticamente senza pause. Se ne andrà, quindi, dopo una quasi patetica scena d'addio – sempre rigorosamente filmata – che darà il via all'inesorabile aggravarsi delle ossessioni di Bro.


Offscreen viene presentato come il risultato finale, curato e montato da Boe, delle innumerevoli ore di filmati di Bro. Un mockumentary di novanta minuti che inizia proprio nel momento in cui Bro, già munito di una telecamera, parla per la prima volta a Christoffer del progetto che intende portare avanti.
La prima parte è quindi la meno interessante: un lungo insieme di riprese amatoriali che ci fanno conoscere Nicolas, personaggio insicuro e a tratti sgradevole, con le sue paranoie sul rapporto sempre più instabile con la moglie e i dubbi riguardo al film che ha appena iniziato a realizzare e di cui non riesce ad avere un'idea ben definita. Il progetto sembra dover definitivamente crollare quando Lene, che del film dovrebbe essere il personaggo principale, decide di andarsene. Bro si ritrova improvvisamente solo, senza moglie e senza attrice principale, ed è a questo punto che Offscreen incomincia ad avere una vera e propria identità. L'ossessione di filmare ogni momento della giornata trasforma Bro in una specie di schiavo della telecamera, una vittima impotente che si allontana da colleghi ed amici isolandosi in un mondo a parte. Servirà a poco chiedere ad una sua amica attrice di rimpiazzare Lene per poter andare avanti col film, anzi, l'entrata in scena di Trine (anche lei nella parte di se stessa) non farà altro che peggiorare la situazione, contribuendo alla crescente confusione fra realtà e finzione che porterà Bro al disturbante e sanguinoso delirio della parte finale.

Il film funziona perché riesce a far entrare progressivamente lo spettatore nel viaggio mentale del protagonista, diventando una sorta di riflessione tanto seria quanto malata sulla funzione dell'attore ma soprattutto sul desiderio sempre più generalizzato di voler apparire ad ogni costo. Emblematiche quindi le inquietanti scene in cui Bro passa da una stanza all'altra del suo nuovo appartamento, riempito di telecamere fisse e ormai simile in tutto e per tutto al bunker di un Grande Fratello qualsiasi.

Un grazie ad Elio per avermelo consigliato. La sua recensione la trovate qui.

14/20

venerdì 16 dicembre 2011

Ballata dell'odio e dell'amore


Balada triste de trompeta
Di Álex de la Iglesia, 2010 (Spagna, Francia), 107 min.
Con Carlos Areces, Antonio de la Torre, Carolina Bang
Scritto da Álex de la Iglesia

Javier, come gli fa notare suo padre all'inizio della pellicola, non è mai stato giovane. Cresciuto in mezzo alla guerra, non ha conosciuto altro che sofferenza e miseria. Quando si tratta di scegliere se diventare un payaso tonto o un payaso triste, la decisione è quindi inevitabile: non si possono far ridere i bambini se bambini non lo si è mai stati. Dopo la breve ma importantissima scena iniziale, ambientata nel pieno della guerra civile spagnola, ci si sposta nel 1973: Javier trova lavoro nel circo di Sergio, clown di successo noto anche per essere un violento ubriacone; gli farà da spalla, conoscerà Natalia, la sua compagna trapezista, se ne innamorerà (ricambiato?) e deciderà di dare una svolta alla propria vita.


Balada triste de trompeta è un film chiaramente diviso in due parti: una più classica e pacata, stravagante solo a tratti, e un'altra, la seconda, decisamente più sregolata e sopra le righe, in cui de la Iglesia si sfoga inserendo tutte le particolarità che hanno reso famoso il suo modo di fare cinema, senza preoccuparsi di esagerare o di dare una vera e propria logica al racconto. Il suo vuole essere un film libero, senza restrizioni. Dopo la scena introduttiva, che mette in ridicolo i dogmi militareschi contrapponendoli allo spettacolo di due pagliacci e alle risate dei bambini accorsi a vederli, l'accusa alla guerra e all'autoritarismo passa poi attraverso la lotta senza esclusione di colpi fra il violento Sergio e il timido Javier che, mosso dall'amore e dal desiderio di vendetta che si porta dietro dai tempi della morte del padre, si ribellerà diventando ancora più spietato del suo antagonista.
Ma Balada triste non è solo guerra civile, Franco (fantastica la sua breve e ridicola apparizione) e storia spagnola: il racconto funzionerebbe anche come semplice storia d'amore e di passione. Il triangolo sentimentale fra i tre personaggi principali regala prima momenti di estrema tenerezza, per poi sfociare nell'inattesa violenza su cui si baserà tutta la seconda parte del film.
Il contesto circense permette inoltre al regista di poter sfruttare al massimo la sua passione per il grottesco: personaggi bizzarri e situazioni surreali non sembrano mai fuori luogo e si adattano perfettamente alla narrazione sopra le righe, che vede la sua perfetta conclusione in uno dei finali più assurdi che mi sia capitato di vedere ultimamente.
Disperato, urlato, malinconico e divertente, probabilmente uno dei migliori di de la Iglesia.

16/20

giovedì 1 dicembre 2011

Super 8



Di J.J. Abrams, 2011 (USA), 112 min.
Con Joel Courtney, Elle Fanning, Riley Griffiths, Ryan Lee, Zach Mills, Kyle Chandler, David Gallagher, Bruce Greenwood
Scritto da J.J. Abrams

A Lilian, classica cittadina americana (fittizia) in cui non siamo mai stati ma che già ci sembra di conoscere a memoria, sta per iniziare l'estate del 1979. Joe e il suo gruppetto di amici stanno girando un film horror amatoriale per partecipare ad un concorso e durante una ripresa notturna vicino alla stazione assistono casualmente al deragliamento di un treno militare. I soccorsi però non tardano ad arrivare, e i ragazzini sono costretti ad abbandonare in fretta e furia il luogo dell'incidente. Quello che non sanno è che il treno trasportava un pericoloso ospite indesiderato, e che da quel momento in poi le loro vite non saranno più le stesse.



Presentata già mesi prima dalla sua uscita come una specie di operazione nostalgia in grande stile, l'opera di Abrams contiene tutti gli elementi del cinema di fantascienza “commerciale” che ormai è sempre più raro vedere e che in questo caso speravo proprio di riscontrare. L'intento di omaggiare le atmosfere spensierate dello Spielberg degli anni d'oro, quello di E.T. ed Incontri ravvicinati del terzo tipo e che dopo Jurassic Park, per quanto mi riguarda, non si è più fatto vedere, è riuscito alla perfezione. Abrams poi non si accontenta di puntare esclusivamente sull'ambientazione nostalgica, ma di quegli anni riprende anche il modo di fare cinema, con l'unico obiettivo di incantare lo spettatore. Insomma, Super 8 è una goduria. Bello già dal trailer, che per una volta ci fa vedere ben poco di quello che ci aspetta e in cui il “mostro” non appare nemmeno per sbaglio. Cosa rara, ora che per attirare lo spettatore nelle sale è pratica comune mostrare nel trailer la maggior parte delle scene cruciali del film.

1979: niente internet o telefonini. A Lilian, per comunicare, si usano i walkie-talkie, si va in giro in bicicletta e si ascoltano Knack e Blondie; un piccolo universo a parte in cui è facile tenere nascosto al resto del mondo il deragliamento di un treno con la conseguente fuga dell'alieno al suo interno. Da questo punto di vista i militari – finalmente cattivi, stupidi e volutamente poco approfonditi - hanno vita facile. Ma i militari, così come tutti gli adulti del film, sono solo uno strumento, protagonisti secondari di una storia che non si concentra né su di loro né sull'alieno, ma prevalentemente sul gruppo di giovani amici. Ed è per questo che il film funziona. C'è l'incanto, quello che loro vivono in prima persona, senza corruzioni o elementi aggiuntivi di troppo: cinema fantastico nel vero senso della parola.


E non era facile, girare un film del genere. Fracassone ma non in modo invasivo, con scene d'azione in vecchio stile mai frenetiche e cariche anche di una certa tensione; giocato sui sentimenti (solito rapporto difficile fra padre e figlio in seguito alla morte della madre, primi amori, incomprensioni fra amici...) ma che non cerca mai la lacrima facile. Abrams vuole divertirsi e divertire, con la consapevolezza di poterlo fare senza ricorrere ad un uso esagerato degli effetti speciali ma puntando sulla storia che intende raccontare e su una perfetta gestione del ritmo e dei colpi di scena. Infarcendo il film di riferimenti al cinema horror e di fantascienza (Romero, Carpenter, E.T. e tanti altri), riesce comunque ad andare oltre, dimostrando intelligenza e personalità.
Mi ha fatto anche piacere notare che in un PG-13 fossero presenti parolacce, droga e sangue, elementi che in questo tipo di produzioni vengono solitamente censurati senza pietà, ma che qui vengono usati con ironia.
Bellissimo, una delle sorprese più piacevoli dell'anno.

Ho tolto i soliti cuoricini e messo un voto su 20, come nel sistema scolastico (e un po' anche universitario) francese in cui sono cresciuto. Questa volta, almeno, i voti non li subisco ma mi diverto a darli. Sempre senza pretese, ovviamente. In questo caso il voto è davvero alto, ma ha deciso il cuore.

17/20