giovedì 1 dicembre 2011

Super 8



Di J.J. Abrams, 2011 (USA), 112 min.
Con Joel Courtney, Elle Fanning, Riley Griffiths, Ryan Lee, Zach Mills, Kyle Chandler, David Gallagher, Bruce Greenwood
Scritto da J.J. Abrams

A Lilian, classica cittadina americana (fittizia) in cui non siamo mai stati ma che già ci sembra di conoscere a memoria, sta per iniziare l'estate del 1979. Joe e il suo gruppetto di amici stanno girando un film horror amatoriale per partecipare ad un concorso e durante una ripresa notturna vicino alla stazione assistono casualmente al deragliamento di un treno militare. I soccorsi però non tardano ad arrivare, e i ragazzini sono costretti ad abbandonare in fretta e furia il luogo dell'incidente. Quello che non sanno è che il treno trasportava un pericoloso ospite indesiderato, e che da quel momento in poi le loro vite non saranno più le stesse.



Presentata già mesi prima dalla sua uscita come una specie di operazione nostalgia in grande stile, l'opera di Abrams contiene tutti gli elementi del cinema di fantascienza “commerciale” che ormai è sempre più raro vedere e che in questo caso speravo proprio di riscontrare. L'intento di omaggiare le atmosfere spensierate dello Spielberg degli anni d'oro, quello di E.T. ed Incontri ravvicinati del terzo tipo e che dopo Jurassic Park, per quanto mi riguarda, non si è più fatto vedere, è riuscito alla perfezione. Abrams poi non si accontenta di puntare esclusivamente sull'ambientazione nostalgica, ma di quegli anni riprende anche il modo di fare cinema, con l'unico obiettivo di incantare lo spettatore. Insomma, Super 8 è una goduria. Bello già dal trailer, che per una volta ci fa vedere ben poco di quello che ci aspetta e in cui il “mostro” non appare nemmeno per sbaglio. Cosa rara, ora che per attirare lo spettatore nelle sale è pratica comune mostrare nel trailer la maggior parte delle scene cruciali del film.

1979: niente internet o telefonini. A Lilian, per comunicare, si usano i walkie-talkie, si va in giro in bicicletta e si ascoltano Knack e Blondie; un piccolo universo a parte in cui è facile tenere nascosto al resto del mondo il deragliamento di un treno con la conseguente fuga dell'alieno al suo interno. Da questo punto di vista i militari – finalmente cattivi, stupidi e volutamente poco approfonditi - hanno vita facile. Ma i militari, così come tutti gli adulti del film, sono solo uno strumento, protagonisti secondari di una storia che non si concentra né su di loro né sull'alieno, ma prevalentemente sul gruppo di giovani amici. Ed è per questo che il film funziona. C'è l'incanto, quello che loro vivono in prima persona, senza corruzioni o elementi aggiuntivi di troppo: cinema fantastico nel vero senso della parola.


E non era facile, girare un film del genere. Fracassone ma non in modo invasivo, con scene d'azione in vecchio stile mai frenetiche e cariche anche di una certa tensione; giocato sui sentimenti (solito rapporto difficile fra padre e figlio in seguito alla morte della madre, primi amori, incomprensioni fra amici...) ma che non cerca mai la lacrima facile. Abrams vuole divertirsi e divertire, con la consapevolezza di poterlo fare senza ricorrere ad un uso esagerato degli effetti speciali ma puntando sulla storia che intende raccontare e su una perfetta gestione del ritmo e dei colpi di scena. Infarcendo il film di riferimenti al cinema horror e di fantascienza (Romero, Carpenter, E.T. e tanti altri), riesce comunque ad andare oltre, dimostrando intelligenza e personalità.
Mi ha fatto anche piacere notare che in un PG-13 fossero presenti parolacce, droga e sangue, elementi che in questo tipo di produzioni vengono solitamente censurati senza pietà, ma che qui vengono usati con ironia.
Bellissimo, una delle sorprese più piacevoli dell'anno.

Ho tolto i soliti cuoricini e messo un voto su 20, come nel sistema scolastico (e un po' anche universitario) francese in cui sono cresciuto. Questa volta, almeno, i voti non li subisco ma mi diverto a darli. Sempre senza pretese, ovviamente. In questo caso il voto è davvero alto, ma ha deciso il cuore.

17/20

lunedì 7 novembre 2011

The Limits of Control


Di Jim Jarmusch, 2009 (USA, Giappone), 116 min.
Con Isaach De Bankolé, Alex Descas, Luis Tosar, Paz de la Huerta, Tilda Swinton, Youki Kudoh, John Hurt, Gael García Bernal, Bill Murray
Scritto da Jim Jarmusch

Un killer senza nome, elegante e di poche parole, se ne va in giro per l'Andalusia seguendo le incomprensibili istruzioni che i suoi vari contatti gli consegnano in piccole scatole per fiammiferi. Numeri e lettere scritti apparentemente a caso che lo guidano ogni volta verso una nuova destinazione.
I contatti, con cui il killer ha brevi e singolari conversazioni, sono eccentrici anche per i personaggi a cui Jarmusch ci aveva precedentemente abituati: un'appassionata di cinema classico, una studiosa di molecole, una ragazza costantemente nuda, un vecchio amante della pittura...
Tutti questi incontri hanno come unico scopo quello di avvicinare il killer ad un misterioso uomo d'affari americano nascosto in una villa circondata da guardie armate.


La trama è quella di un film d'azione, ma il film è ovviamente quello che ci si aspetterebbe da uno dei registi più particolari in circolazione, che malgrado qualche piccola novità, non ha sicuramente cambiato modo di fare cinema: il suo tocco c'è ed è sempre più ricercato e personale. Personaggi strambi ed affascinanti, dialoghi surreali, tempi lenti e, soprattutto, quell'incomunicabilità che ha sempre fatto da sfondo ad ogni sua storia, rappresentando più un vantaggio che un vero e proprio ostacolo. I dialoghi fra Forest Whitaker e Isaach De Bankolé (qui nel ruolo del killer) in Ghost Dog ne sono forse la prova più lampante.
I silenzi però contano quanto i dialoghi, ed è proprio uno dei contatti del killer, La Bionda, a farlo notare: "mi piace quando nei film gli attori se ne stanno seduti senza dire niente", dice in un momento morto della conversazione, sorridendo e guardando nel vuoto.
A catturare l'attenzione dello spettatore sono dettagli come questo, quelle piccole cose su cui solitamente non ci si sofferma. E così le prove di uno spettacolo di flamenco, osservate da un incantato killer solitario in una delle scene più belle del film, diventano molto più importanti e significative dello spettacolo vero e proprio, che infatti neanche vedremo.

Di nuovo c'è invece una ricerca estetica che Jarmusch non aveva forse mai affrontato in questo modo: fotografia curatissima e colorata (evidente soprattutto nella bellissima scena in treno con Molecules, la ragazza appassionata di molecole), qualche inusuale movimento di camera e addirittura due o tre brevi scene al ralenti.
L'aspetto più sorprendente è però il valore simbolico dell'opera. Ogni personaggio rappresenta temi come il cinema, la musica, la pittura, le droghe ed il sesso, che Jarmusch associa presumibilmente ad un concetto di libertà che il killer solitario non può raggiungere perché ancora intrappolato nei rigidi schemi di un controllo superiore. Identificare e sconfiggere quest'ultimo ostacolo diventerà quindi il suo obiettivo principale.
Ed è infatti solo alla fine che gli intenti del regista diventano chiari: che lo si voglia leggere in chiave politica o artistica, che abbia un valore generale o che si riferisca semplicemente al percorso interiore del personaggio principale, The Limits of Control rimane un film profondamente libero ed antiautoritario.
Lento, enigmatico, anarchico, malinconico, divertente, ammaliante... Un capolavoro, uno dei tanti di un Jarmusch che non la smette di stupire.

Concludo con un estratto di un'intervista a Jarmusch al Reykjavik International Film Festival del 2010. Ho deciso di metterla per la chiarezza del concetto espresso. L'audio non era molto decente, perdonate eventuali errori.

Each one of us has our own consciousness, and it is the most valuable thing we have, and it is our own. And you could be influenced, people will try to tell you what is reality. You know, I grew up with authority figures, and school, policemen, even my father, telling me things like […] “you just don't understand how the real world works”, you know, and I heard that so many times... But the real world is mine to interpret. […] And i don't like being told what is real.




p.s. Il blog è arrivato a un anno di età. Ero indeciso se scrivere o meno una specie di post celebrativo e alla fine ho deciso di farlo limitandomi ad aggiungere qualche riga alla recensione di un film. Siccome Jarmusch è uno dei registi che preferisco, The Limits of Control mi sembrava l'occasione giusta.
Quando ho deciso di aprire un blog di cinema non ne conoscevo nemmeno uno, e in poco tempo ho scoperto un intero universo di siti interessanti, curati da gente competente e con una cultura cinematografica impressionante; ho letto e continuo a leggere, in giro per la “blogosfera”, analisi di film perfette, curate e dettagliate come non capita nemmeno nelle riviste specializzate, esposte sempre con semplicità ed umiltà. Ed è proprio questo l'aspetto più positivo: gli autori sono sempre disposti al dialogo e ad accettare opinioni divergenti, senza che nessuno mai si ritenga depositario di chissà quale verità cinematografica.
I blog di cui sto parlando non sono pochi e mi hanno fatto scoprire una quantità enorme di film nuovi, e molti di questi ho la fortuna di averli fra i miei “blog amici”. Il “problema” è che continuo a scoprirne praticamente ogni giorno, ed ogni giorno ho l'impressione che Piano piano, sequenza... (eh, il titolo è venuto così, lo so...) sia meno interessante.
Nel mio piccolo ho comunque deciso di non scoraggiarmi e di continuare. Le recensioni che scrivo sono brevi e poco approfondite (e mi fermo qui per non dire altro), ma mi diverto a scriverle e spero possano risultare anche solo un minimo interessanti a chi ha la pazienza di fermarsi qui da me e di leggere periodicamente i miei post. Fra i tanti difetti c'è anche quello dei “cuoricini” che danno il voto – ovviamente soggettivo e senza nessuna pretesa - al film, e che più di una volta ho pensato di togliere.
Ad ogni modo, fra i pochi commentatori fissi e casuali, ci sono persone che in un certo senso ho conosciuto e che apprezzo molto, e questo mi basta.
I ringraziamenti di cui parlavo all'inizio sono rivolti a tutti quelli che stanno leggendo questo post: ai blogger ma anche a quei lettori esterni che non si sono mai palesati ma che ogni tanto, magari, passano di qui. Ce ne saranno? Forse uno o due, a me piace pensarlo.
Dovessi ringraziare tutti, questo diventerebbe un post troppo paraculo, e siccome già mi sembra di aver oltrepassato i limiti consentiti, scelgo di citarne tre in particolare:
Ford, il primo a commentare sul blog, bevitore incallito che dal suo primo passaggio qui non ha praticamente mai smesso di partecipare.
Alessio, con cui mi sono trovato in sintonia sia per quanto riguarda il cinema che per la visione della società in cui viviamo, e questo mi ha fatto enormemente piacere.
E Alice, il cui improvviso e dirompente arrivo da queste parti ha contribuito ad animare il blog. E anche per lei vale il discorso su cinema e società.

giovedì 3 novembre 2011

I guardiani del destino


The Adjustment Bureau
Di George Nolfi, 2011 (USA), 106 min.
Con Matt Damon, Emily Blunt, Terence Stamp, Michael Kelly, Anthony Mackie
Scritto da George Nolfi, tratto da un racconto di Philip K. Dick

La carriera di David Norris, giovane ed arrembante politico in procinto di diventare senatore, subisce un arresto improvviso a causa di alcune foto compromettenti scattate durante una festa con alcuni ex compagni di liceo. Consapevole della sconfitta, si rifugia nel bagno dell'albergo che ospita il suo intero staff per ripassare il discorso che dovrà tenere davanti ai suoi sostenitori delusi.
Si dà il caso – ma non per caso, come direbbe Vonnegut – che in quel bagno si sia nascosta anche Elise, una giovane e promettente ballerina inseguita dal servizio d'ordine dell'albergo per essersi imbucata ad un matrimonio. I due si presentano e, com'è come non è, dopo due minuti due scatta il limone duro. Sul più bello entra però nel bagno l'assistente di Norris, che interrompe la magia e fa scappare la ragazza. I due si rivedono per caso – e questa volta è davvero per caso – solo alcuni mesi dopo, su un pullman, e hanno finalmente la brillante idea di scambiarsi i numeri di telefono. Ed è qui che entrano in gioco i guardiani del titolo: un grande gruppo organizzato di persone in giacca e cravatta che governa indirettamente il mondo influenzando le decisioni degli esseri umani. Chi sono davvero? Non si può sapere. Quel che è certo è che sono comandati dal chairman. Chi è il chairman? Non si può sapere nemmeno quello, se non che noi umani “lo chiamiamo in molti modi”. Una specie di dio, quindi. Bene...
Questi simpatici guardiani, dicevo, hanno in serbo per David ed Elise altri piani, e faranno di tutto per impedire che si rivedano.


Dal film d'esordio dello sceneggiatore George Nolfi non mi aspettavo nulla di particolare, anche se, in fondo, speravo potesse riuscire ad intrattenermi un minimo. Non è andata così.
The Adjustment Bureau è un film che dall'inizio alla fine tende a rassicurare lo spettatore, tirando in ballo questioni importanti come libertà e libero arbitrio e trattandole con la stessa banalità di un quotidiano d'informazione. È un procedimento che ovviamente coinvolge anche il personaggio di David Norris, il politico anticonformista (?) che dà speranza ai giovani (e che viene riconosciuto ed applaudito da mezza discoteca in una delle scene più trash che io abbia mai visto), e che trova il suo culmine nella forzatissima ed americanissima inquadratura finale. Anche la presenza degli insipidi guardiani – “cattivi” senza esserlo, e quindi mai veramente interessanti – viene poi giustificata usando la solita e nauseante teoria secondo cui l'essere umano sarebbe un animale malvagio e violento che se lasciato solo, senza i loro ripetuti interventi, non causerebbe altro che guerre, olocausti e distruzione. Noia pura.
Noiose anche le sequenze d'azione, basate sul fatto che grazie ad un cappello magico sia possibile teletrasportarsi da un posto all'altro semplicemente aprendo una porta. Andrebbe anche bene, se almeno ci fosse un po' di suspense.
Nemmeno il lato romantico riesce a salvarsi, perché fra tutti gli inseguimenti e le paranoie sul destino dell'umanità, la storia d'amore fra Elise e David risulta soffocata e troppo poco credibile per suscitare interesse.
Insomma, dovrebbe essere una sorta di thriller romantico fantascientifico; di thriller però non c'è nulla, di romantico poca roba e di fantascienza solo qualcosina. Cosa rimane? Niente, proprio niente.

martedì 1 novembre 2011

The Woman


Di Lucky McKee, 2011 (USA), 101 min.
Con Pollyanna McIntosh, Angela Bettis, Sean Bridgers, Lauren Ashley Carter, Carlee Baker
Scritto da Lucky McKee, Jack Ketchum


Se Lucky McKee continua così, presto sfornerà un vero e proprio capolavoro, anche se, in un certo senso, questo The Woman già lo è.
Chris, avvocato di successo e padre di famiglia, scopre per caso la tana di The Woman, una ragazza selvaggia cresciuta nei boschi (per saperne di più occorrerebbe forse vedere The Offspring, di cui The Woman è il seguito). Decide quindi di catturarla per poterla “civilizzare”.
Rinchiusa in una specie di rifugio sotterraneo, la donna subirà ogni sorta di maltrattamenti e violenze.


The Woman può essere definito senza problemi un film horror, ma così come aveva fatto in May, McKee va ben oltre e dimostra di essere un regista capace di trattare temi complicati e profondi con una scioltezza ammirevole.
Il suo bellissimo film d'esordio era una specie di ritratto acuto e sensibile di una ragazza esclusa che non chiedeva altro che un po' di attenzione. La solitudine, il sentirsi diversi e incompresi... tematiche già viste e riviste in decine di film, ma sovente in modo molto più banale e conformista.
Qui McKee parla della donna, di violenza domestica, dei comportamenti malsani frutto di un'educazione distorta e autoritaria, arrivando pure a chiedersi cosa significhi davvero la parola civiltà.
Il film parte lentamente e il regista, come al solito, preferisce prima mostrarci i personaggi insistendo – ma neanche troppo – sulle dinamiche che regolano i loro rapporti. Si capisce subito che all'interno della famiglia di Chris qualcosa non va: c'è disagio, paura, soggezione. Poi, di colpo, la scena dello schiaffo. Talmente improvvisa da far rabbrividire, con la telecamera fissa sul viso della moglie che a stento trattiene le lacrime; e tutto ciò che fino a quel momento McKee aveva solo suggerito, ora te lo mostra violentemente, quasi con cattiveria. Da qui in poi il film diventa davvero potente e disturbante, senza però mai risultare esagerato. Da notare l'uso perfetto di una colonna sonora (simile a quella di May) che mai ci si aspetterebbe di sentire in certe scene.
Non si capiscono comunque le accuse di misoginia che sono state rivolte al film e a McKee, ma ormai basta che esca una pellicola un po' diversa dal solito in cui vi siano elementi che riguardino anche solo in parte i conflitti fra i due sessi per sentire roba tipo “film sessista”, “regista misogino” e "sceneggiatore depravato”. Con Antichrist d'altronde era successa la stessa cosa. In entrambi i film, ovviamente, di antifemminista non c'è proprio nulla.


domenica 30 ottobre 2011

Triangle


Di Christopher Smith, 2009 (UK, Australia), 99 min.
Con Melissa George, Liam Hemsworth, Rachael Carpani, Henry Nixon
Scritto da Christopher Smith

È abbastanza difficile parlare della trama di questo film senza rovinarne la visione, anche perché, per quanto da un certo punto in poi la storia non presenti nulla di nuovo, i trenta bellissimi minuti iniziali funzionano soprattutto se non si ha la minima idea di ciò che si sta vedendo. Quindi consiglierei a chi fosse interessato a procurarsi questo Triangle di interrompere la lettura dopo la prima foto, quella con la faccia di Melissa George in paranoia piena.
Per ora si può rivelare che il film inizia con Jess (la George) in preda alle lacrime che abbraccia il figlio, gli dice qualcosa riguardo ad un incubo di cui non ci è dato sapere nulla e poi, nella scena seguente, raggiunge ancora visibilmente scossa alcuni suoi amici al porto per una gita in barca. Il clima a bordo è relativamente sereno e pure Jess sembra adeguarsi allo stato d'animo del resto del gruppo. Le cose peggiorano quando, dopo una bevuta e una dormita, i cinque amici avvistano una tempesta formatasi all'improvviso poco lontano dalla loro barca. Riescono a contattare la guardia costiera per qualche secondo ma il segnale è disturbato, e nella comunicazione si intromette una voce di donna terrorizzata che pronuncia la solita frase ad effetto tipo “sono morti, sono tutti morti!” Poi, il silenzio. Una volta finita la tempesta la barca è inutilizzabile e alla deriva e una delle ragazze risulta dispersa. Fortunatamente (ma anche no), dopo non molto tempo sbuca dal nulla una nave su cui i nostri riescono a salire...


(Se state leggendo questa frase o avete già visto il film o non avete nessuna intenzione di recuperarlo, quindi inizio con gli spoiler.)
La nave però è deserta e girando per i corridoi i quattro trovano per terra un mazzo di chiavi appartenente a Jess: stesso fiorellino di plastica a mo' di portachiavi e, soprattutto, stesso ciondolo con tanto di foto del figlio.
Raccontare il seguito della trama fino al momento in cui il titolo del film perde ogni ambiguità (è stato girato in Australia ma nella storia ci troviamo presumibilmente al largo della Florida) e diventa chiaro che ci troviamo di fronte a realtà parallele, viaggi e paradossi temporali, sarebbe abbastanza inutile. Un'altra possibile e ancora più probabile interpretazione è data dagli stessi protagonisti nelle prime scene sulla nave da crociera, quando accennano al mito di Sisifo e al fatto che fosse stato condannato dagli dei a spingere un masso su per una collina, vederlo ricadere in basso e poi ripetere la fatica daccapo per l'eternità. Ma in questo caso, siccome a più riprese vediamo più “versioni” di ogni personaggio presenti contemporaneamente sullo schermo, sempre di viaggi nel tempo si tratta.
La storia però funziona proprio perché non viene mai fornita una spiegazione evidente e Smith, dopo l'acerbo Creep e l'inusuale Severance, con un budget relativamente basso di dodici milioni di dollari riesce finalmente nell'intento di angosciare lo spettatore. È un film semplice ma dalla messa in scena estremamente curata ed efficace. La tensione è presente dall'inizio alla fine e personalmente mi sono molto divertito. Non chiedevo altro.